All’Arena del Sole di Bologna è andato in scena Compassion, ultimo spettacolo di Milo Rau, nelle uniche date italiane. Recensione
Dal 2009 il regista teatrale e cinematografico Milo Rau costruisce i propri lavori secondo il metodo del re-enactment, ovvero a partire dalla ricostruzione e la riproduzione fedele di eventi storici, sociali e politici, in un’operazione che però si innesta su una più profonda – e costante – riflessione riguardo il proprio modo di fare teatro, che di spettacolo in spettacolo dimostra di essere non solo il mezzo con cui diffondere un’idea ma vera e propria chiave di comprensione del mondo. Dopo l’intervallo con il precedente Five Easy Pieces sul Mostro di Marcinelle, (visto durante lo scorso Short Theatre a Roma e poi al festival di Terni), Rau ritorna ad affrontare questioni legate all’Africa centrale con Compassion. La storia della mitragliatrice, presentato nelle uniche date italiane all’Arena del Sole lo scorso marzo grazie al progetto di rete teatrale europea Prospero. Se in Hate Radio (spettacolo del 2011, arrivato in Italia alla Biennale veneziana nel 2015) il fuoco era esclusivamente sul genocidio ruandese, in questo caso il viaggio, la ricerca e la ricreazione attraversa diversi paesi, seguendo le orme e le storie dei rifugiati provenienti dal Medio Oriente, Europa fino al Congo, Burundi e Ruanda.
Cosa rimette in atto, cosa rievoca dunque l’ingombrante materiale accatastato sul palco del teatro bolognese dell’ERT? Investe il nostro sguardo innanzitutto visivamente: materiali di scarto, rifiuti di piccola e media entità, lavatrici, sedie divelte, plastica, pneumatici, terra, rami, bidoni. Su questo si stagliano per contrasto una scrivania, un divano di pelle, un leggio nero e la compostezza dei racconti delle due attrici. Saranno loro a delineare (in francese e tedesco) il corso della storia raccontata. Se Consolate Sipérius apre e chiude lo spettacolo partendo dal proprio vissuto di sopravvissuta al genocidio dei Tutsi, fuggita a quattro anni dopo la morte di entrambi i genitori e la nuova vita in Europa, è Ursina Lardi a reggere buona parte dello spettacolo, percorrendo una strada contraddittoria sulla quale si scontrano l’istinto di compassione con un finto umanitarismo, il diritto all’informazione con il voyeurismo, la sopravvivenza e l’umiliazione, la finzione scenica e la pretesa di verità, la presenza scenica e la citazione. La sua è un’interpretazione partecipata e calibratissima, filtrata da un necessario distacco, diretto a noi spettatori mentre sorseggia quasi distrattamente l’acqua da alcune bottigliette lasciate costantemente a metà.
Nella drammaturgia curata da Florian Borchmeyer si rivela il racconto di una cittadina europea che si è trovata a condividere luoghi di conflitto, partecipando a ONG umanitarie, stringendo legami d’amicizia in un contesto in cui le relazioni sembrano essere soltanto quelle tra chi spara e chi viene sparato, dove, per non sentire le urla del genocidio, si alza il volume di una sinfonia di Beethoven o la propria voce. Come il messaggero della tragedia greca che racconta di morti, battaglie e disastri, così lei, verso di noi, parlando e mostrandoci foto e video proiettati sullo sfondo, restituisce a noi il senso di quell’esperienza. A volte alcune involuzioni rallentano ritmicamente lo spettacolo, sembrano tuttavia indurre chi assiste a una sorta di attestazione placida, che tutto sia estremamente lontano, protetto. Lardi così restituisce il suo lavoro di attrice chiedendo allo spettatore: «qual è la situazione? Lo stato della stanza voi, io, che cosa stiamo facendo?».
All’attore costa qualcosa esporsi alla presenza completa ma lei non ne ha più bisogno, le basta semplicemente, ci dice, entrare nella situazione. Milo Rau, attraverso questo approccio critico alla realtà, costruisce volutamente uno spettacolo in cui il paradosso si annida nel testo e sembra deresponsabilizzare l’azione stessa. «Entrare nella situazione» è quasi allora spettacolarizzare il dolore, (come la foto del bambino morto sulle coste della Turchia che pochi mesi fa divenne immagine virale); è il considerare che usare i disabili a teatro sia una moda passata, mentre adesso fa gioco molto di più prendere un rifugiato, magari nero; è il tramutare in realtà scenica il sogno terribile in cui Ursina si vede costretta ad umiliare l’amica condannata, urinandole addosso. Che sia verità o finzione narrativa, noi non vedremo questa scena, ne sentiremo però il peso attraverso il re-act, in cui si palesa l’atteggiamento fintamente compassionevole, per cui, citando Dogville di Lars Von Trier, «vince solo chi ha in mano la mitragliatrice».
Milo Rau, come sempre perfettamente consapevole della doppia lama del suo dispositivo drammaturgico mette in scena una contraddizione, la ribalta non per cercare un colpevole, ma perché se ne prenda coscienza, perché si capisca che dietro quella spazzatura e davanti quell’orrore, c’è la nostra mano che applaude.
Viviana Raciti
Visto all’Arena del Sole, marzo 2017
Regia Milo Rau
ComUrsina Lardi, Consolate Sipérius
Scene e costumi Anton Lukas
Video e suoni Marc Stephan
Dramaturgia Florian Borchmeyer
Collaborazione alla drammaturgia e alla ricerca: Mirjam Knapp, Stefan Bläske
Disegno luci Erich Schneider
In cooperazione con l’European THeatre Network PROSPERO (Schaubühne Berlin, Théâtre National de Bretagne/Rennes, Théâtre de Liège, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Göteborgs Stadstheater, Croatian National Theatre/World Theatre Festival Zagreb, Athens & Epidaurus Festival)