Massimo Verdastro protagonista di due eventi presso Il Lavoratorio di Firenze con una sua mostra fotografica e lo spettacolo Sandro Penna, una quieta follia scritto da Elio Pecora. Recensione
Il suo sorriso si intravede già dal portone socchiuso, qualche istante prima che lo spalanchi pronunciando un familiare «Benvenuti!» e accogliendo con attitudine paterna chiunque lo abbia attraversato. È una convinta stretta di mano ad accompagnare i saluti: un gesto, questo, con cui Andrea Macaluso sembra rinnovare la scommessa che nell’ottobre del 2016 lo ha portato a fondare l’associazione culturale Il Lavoratorio e a inaugurare l’omonimo spazio, aggiungendo così un nuovo nodo alla rete di realtà fiorentine dedicate alle arti performative. Ibrido e indipendente, necessario in virtù della sua specificità, il Lavoratorio è residenza artistica, centro di formazione, luogo dove tessere relazioni e affetti, seduti sul divano che domina l’ingresso o attorno al tavolo della piccola cucina che è solita ospitare il pubblico al termine degli spettacoli. Rapporti familiari transgenerazionali, e quel caratteristico e nostalgico amore che lega gli uomini alle stanze che fanno da scenario ai propri ricordi, costituiscono non a caso i moventi del felice azzardo di Macaluso: prima di diventare un palcoscenico, quelle sale di via Giovanni Lanza furono sede dell’attività di pelletteria del nonno Mario Gianassi, al quale si deve anche l’originaria e amorevole storpiatura del più tecnico nome “laboratorio” ‑ come raccontato dallo stesso Macaluso in una densa intervista curata da Matteo Brighenti e pubblicata su PAC – Pane Acqua & Culture in occasione della serata di apertura. Perché se labor sembra opacizzarsi nella coscienza, e sedimentare in una memoria distante e aristocratica i suoi significati di operosità e sforzo, è nella banalità del lavoro, nella sua pacifica e rassicurante quotidianità che si riconosce quella visione del mondo e delle arti di cui Il Lavoratorio è esito e processo. Una costante dedizione all’artigianalità del fare teatro, un confronto continuo ed estenuante con se stessi e con il prodotto della propria creatività, una disciplina della scena come luogo di altissima manodopera e di straordinario apprendistato: queste le cifre che emergono dai seminari, incontri, eventi che hanno costellato la prima stagione del nuovo spazio, abitato tra gli altri da Leonardo Capuano, Alessandro Baldinotti, Le Brugole, Giuliano Scarpinato.
I documenti e gli oggetti esposti nei giorni ordinari lungo le pareti, cronaca per immagini di una famiglia operaia e di un’attività interrotta dalla furia di acqua e nafta dell’alluvione del 1966, raccontano un passato che è al contempo lascito e promessa: e condividono così la stessa duplice natura delle fotografie scattate da Massimo Verdastro ed esposte in occasione delle tre date di Sandro Penna, una quieta follia. Luca Ronconi colto negli istanti di pausa durante il monumentale allestimento de Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus al Lingotto di Torino, Massimo Popolizio che accarezza un gatto, Luca Zingaretti in un paesaggio assolato: la prospettiva con cui il Verdastro fotografo ha osservato per tanti anni la scena teatrale italiana è intima, volta a imprimere sulla pellicola in bianco e nero non segnali di grandezza, ma istanti comuni e le passioni che in essi possono rivelarsi. Lo stesso sguardo cameratesco sembra attraversare l’esistenza di Sandro Penna nella drammaturgia che Elio Pecora costruisce per l’attore premio Ubu, e che si soffermano sui moti del cuore più che sulla storia pubblica della quale, forse a malincuore, il poeta è stato testimone. Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini, Umberto Saba: il testo firmato da Pecora, biografo e confidente di Penna, è un florilegio di protagonisti del Novecento culturale italiano, accomunati dalla stima nei confronti dell’autore di Una strana gioia di vivere. Un’ammirazione che Penna, tuttavia, sembra aver rifuggito con caparbietà, non comprendendo il proprio genio né condividendone le interpretazioni: attraverso la voce e il corpo di Massimo Verdastro, Penna rivela infatti di aver amato, tra le proprie opere, soltanto «il librino giallo di Scheiwiller», e di aver scritto semplicemente «perché felice».
Ed è leggendo su un quadrato di carta i versi «Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune» che Verdastro entra nella piccola sala, indossando un completo chiaro e un sorriso contagioso: le poesie di Sandro Penna si susseguono vorticose come i foglietti gettati a terra, uno dopo l’altro, affastellando nella mente degli spettatori immagini di tenerezza e di biciclette, di fanciulli e di miele. In piedi, al centro di una scena vuota dove troneggiano soltanto due sedie, l’attore si fa poeta e confessa senza alcun rimpianto o colpa l’inconsapevole coraggio della diversità, così come la piana naturalezza che lo ha portato a cercare la passione dei ragazzi anche negli orinatoi. L’infanzia segnata da un padre sifilitico, il primo rivelatorio amore per il cugino Quintilio, le letture dei classici francesi e il prorompere della scrittura: la vita di Penna fluisce in un monologo che Verdastro interpreta con la leggerezza giocosa e il divertito distacco di chi alle estetiche e alle politiche oppone la verità cristallina del proprio amore. Non c’è alcuna orgogliosa rivendicazione di un’omosessualità da ostentare, né alcuna attribuzione di un valore esemplificativo o profetico alla propria storia: il poeta di Pecora e Verdastro è un uomo solo, costretto col passare degli anni a fare i conti con le proprie ossessioni e i propri fantasmi, che sulla scena hanno il corpo e la presenza magnetica di Giuseppe Sangiorgi.
Marinaio fassbinderiano privo della malizia di Querelle, Sangiorgi dipinge su grandi fogli di carta stesi sul palcoscenico il distico «Ricordati di me, dio dell’amore». Egli è un ricordo e un sogno, con cui Verdastro ingaggia delicati corpo-a-corpo, brevi coreografie che traducono le parole in oscillazioni e cadute, in contatti e stasi. Ma è anche un Sandro Penna più giovane, nel cui sguardo e nei cui gesti speculari poter forse indagare le ragioni di quel «problema sessuale» che «prende tutta la vita» del poeta. Incarnazione stessa di un dolore sordo, Sangiorgi esplode la propria rabbia in un frastuono di danza, urla e fogli di carta sui quali tracciare traiettorie di versi ed esistenze. È a terra, che, seminudo, il Sandro Penna di Massimo Verdastro si sdraia esausto, dopo aver ripercorso gli accessi di ciclotimia e quelli di misantropia, dopo aver elencato gli psicofarmaci di cui ha spesso abusato, dopo aver rivelato senza alcuna vergogna la miseria e lo squallore dell’appartamento in cui ha condotto un’esistenza appartata: perché di follia cheta e quieta si è sempre trattato, di un’innocua pazzia che tanto somiglia alla libertà. Su quei grandi fogli dove il chiarore della carta si confonde con quello della biancheria, il poeta sembra trovare infine la possibilità di una rinascita, di un ritorno a un’innocenza perduta: e la memoria dell’amicizia con Acruto Vitali ‑ colui che lo iniziò a Rimbaud ‑ così come il ricordo di Porto San Giorgio, potranno forse lenire il dolore di quell’«infelice amore terribile» rimpianto con amarezza, e tradotto in un canto lungo una vita intera.
Alessandro Iachino
visto a Il Lavoratorio – aprile 2017
SANDRO PENNA, UNA QUIETA FOLLIA
di Elio Pecora
con Massimo Verdastro, Giuseppe Sangiorgi
rielaborazione drammaturgica Massimo Verdastro
musiche originali Riccardo Vaglini
progetto luci Marcello D’Agostino
aiuto regia Giuseppe Sangiorgi
assistenza tecnica Marco Ortolani
produzione Centro Diaghilev s.r.l.
in collaborazione con Compagnia Massimo Verdastro