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Maria Stuarda. Scandalo a corte, non sul palcoscenico

Andrea De Rosa porta all’opera la Maria Stuarda di Gaetano Donizetti, tragedia dello scandalo e del conflitto familiare. Al Teatro dell’Opera di Roma. Recensione

Maria Stuarda
Foto Ufficio Stampa

Un trono vuoto. Così ha inizio la Maria Stuarda con la regia di Andrea De Rosa in scena al Teatro dell’Opera di Roma. L’immagine è iconica. Il regista, ammiccando fin troppo apertamente al pubblico, sembra voler dire: “questa sera niente scherzi, qui si parla di potere: un solo trono e due regine”. E da un intrigo di potere (e di sesso)nasce la leggenda di Maria Stuarda “martire”, che ispira il libretto del giovanissimo poeta Giuseppe Bardari. La drammaturgia è mutuata da Maria Stuart, tragedia in 5 atti di Schiller. L’opera non è fra le più fortunate di Gaetano Donizetti: il musicista ne ultima la composizione nel 1834, ma dovrà aspettare più di un anno perché essa sia rappresentata presso la Scala di Milano, il 30 dicembre 1835, passando per una censura e un paio di debutti andati in fiasco.

La Maria Stuarda è incentrata sul rapporto conflittuale fra le cugine Elisabetta I d’Inghilterra e Maria Stuarda di Scozia, aggravato dal triangolo amoroso con il conteso Roberto di Leicester. Il giovane, fortemente bramato da Elisabetta, serba in realtà un segreto amore(ricambiato) per l’affascinante Maria Stuarda, imprigionata dalla regina nella rocca di Forteringa con l’accusa di alto tradimento. Nella celebre “scena del confronto” fra le regine Maria, nonostante Roberto gli abbia consigliato di mantenere la calma, finisce con l’insultare pesantemente Elisabetta – Figlia impura di Bolena, / Parli tu di disonore? / Meretrice indegna e oscena – suscitando in lei l’ira funesta. Maria viene condannata e, ormai rassegnata al suo destino, si prepara alla morte per esecuzione capitale: poiché protestante rifiuta le cure spirituali del sacerdote cattolico e affida le sue ultime confessioni a Talbot, consigliere della regina, rivelando di essere l’omicida del secondo marito e del nobile Rizzio. La morte di Maria, a guisa di catarsi e martirio, ristabilisce così l’ordine costituito.

Maria Stuarda
Foto Ufficio Stampa

La scena di Sergio Tramonti risulta essenziale ma efficace: la sala del trono iniziale si seziona in due salendo verso l’alto e rivelando i membri del coro al suo interno, volutamente designati da De Rosa come funzionari di corte: spettatori e giudici della vicenda. Le mura divengono poi la rocca e la foresta di Forteringa: la parte sottostante è la prigione, culminata da vetri aguzzi; la parte superiore, raffigurante le sagome degli alberi, ci proietta nel bosco grazie alle decorazioni e ad un sapiente gioco d’illuminotecnica affidata a Pasquale Mari, che utilizza luci di taglio in ogni scena, conferendo allo spettacolo una sorta di atmosfera da pellicola espressionista. Opera sua è l’efficace coup de theatre finale, quando l’ultima americana di luci cala alla stessa altezza del pubblico, accecandoci la vista, quasi a simboleggiare il luccichio di una gigantesca mannaia che incombe sulle nostre teste.
I costumi di Ursula Patzek operano una commistione, né nuova né inconsueta, fra l’ambientazione dell’opera e l’epoca in cui è stata scritta: le regine sono chiaramente abbigliate in stile cinquecentesco. Gli uomini – Roberto su tutti – sembrano vestiti nello stile che aveva l’inizio dell’Ottocento: lo si intuisce dalla blusa bianca di Leicester, dai colori generalmente scuri, dai lunghi cappotti e dagli accessori in pelle nera come stivaloni e guanti. Un abbigliamento maschile che farebbe pensare ad una tradizionale Tosca piuttosto che a una Maria Stuarda.

maria stuarda
Foto Ufficio Stampa

Il lavoro sullo spazio e sulle controscene è accurato. Ma nel teatro d’opera spesso tali elementi non bastano, da soli, a fornire una buona messinscena. Quello che manca è un po’ di scandalo: la capacità di far uscire il pubblico da teatro facendolo parlare di ciò che è accaduto sul palcoscenico. E ciò è molto strano: in questo libretto lo scandalo c’è. È un po’ come se De Rosa, privilegiando altro, si sia dimenticato dell’essenza ultima dell’opera: fare teatro. In questa regia c’è sì del buon teatro, ma è teatro da signore dabbene, quello che meno ci aggrada. Non dico che si debba arrivare forzatamente agli estremismi di Vick o della La Fura, ma almeno giocare facile quando lo scandalo già c’è. E invece no: Maria ed Elisabetta si insultano e perdono le staffe, ma sempre “moderatamente”, a volte agendo un po’ per “pose” sullo spazio scenico, come nella tradizione recitativa operistica. Due primedonne, due regine che sembrerebbero poco esercitare il loro proverbiale pugno di ferro, ma delle quali non traspare nemmeno sufficientemente la fragilità, scarsamente tratteggiate “a tutto tondo” in ultima analisi. Si sa che recitare all’opera, mentre l’intero corpo subisce la pressione degli sforzi vocali, è impresa non da poco. Ciò che si richiede non è certo il più fedele realismo, impresa ardua visti i tempi drammatici dell’opera, ma che lo stile dei performers sia più uniforme: a volte il dislivello si fa notare fra le interpreti femminili, forse a causa del differente bagaglio di esperienza.

maria stuarda
Foto Ufficio Stampa

Roberta Mantegna, che sostituisce in questo turno Marina Rebeka, se la cava egregiamente, strappando al pubblico quasi un minuto di applausi: canta superbamente e regge bene il finale secondo (venti minuti di concertato – parte accompagnata dal coro e dagli altri interpreti – non proprio semplice, poiché estenuantemente lungo e dagli acuti importanti) in cui la tensione trasmessa dalla sua voce invade il teatro ma, come già detto, la recitazione è complessivamente un po’ impacciata. La già rodata Carmela Remigio è un’Elisabetta solida, anche se a volte la voce manca di dinamica, risultando piatta in frangenti in cui necessiterebbe di maggiore espressività. Le parti maschili vengono egregiamente rappresentate da Paolo Fanale, vocalmente ineccepibile (Roberto di Leicester) – ma anche nel suo caso la recitazione non è altrettanto convincente – un Alessandro Luongo (Lord Cecil)impeccabile, con una voce piena che non perde neanche quando la partitura va molto in basso e un bravo Carlo Cigni (Talbot) che supporta egregiamente Roberta Mantegna nel finale. Grande ovazione per la direzione dai tempi serrati di Paolo Arrivabeni: rispettosa dell’opera e della tradizione, poiché priva di tagli alla partitura.
In conclusione questa Maria Stuarda risulta soddisfacente solamente in maniera parziale: arduo sarebbe giungere ad un suo distillato, affinché la messinscena rimanga indelebile nella mente dello spettatore e vada oltre una buona e composta rappresentazione del testo. Peccato, dovremo tornare a cercare il nuovo barlume della rappresentazione teatrale dell’opera in musica nel tanto chiacchierato regietheater, ora che un ennesimo auspicio di aurea mediocritas è andato in fumo.

Mattia Santilli

Teatro dell’Opera di Roma, Sala Costanzi – Marzo 2017

DIRETTORE Paolo Arrivabeni
REGIA Andrea De Rosa
MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE Sergio Tramonti
COSTUMI Ursula Patzak
LUCI Pasquale Mari

INTERPRETI PRINCIPALI
MARIA STUARDA, REGINA DI SCOZIA Marina Rebeka /
Roberta Mantegna * 28 marzo, 4 aprile
ELISABETTA, REGINA D’INGHILTERRA Carmela Remigio /
Erika Beretti* 4 aprile
ANNA KENNEDY Valentina Varriale*
ROBERTO, CONTE DI LEICESTER Paolo Fanale
GIORGIO TALBOT Carlo Cigni
LORD GUGLIELMO CECIL Alessandro Luongo
* Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento in collaborazione con Teatro San Carlo di Napoli

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