Il testo di Michele Santeramo, Il nullafacente, diretto da Roberto Bacci, è stato presentato al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci. Recensione
È un cuneo di cupa efficacia, lo spazio scenico ideato da Roberto Bacci per l’allestimento de Il nullafacente: uno spoglio prisma a base triangolare, che lascia intravedere sul fondale, là dove le quinte sembrano congiungersi, un’opaca striscia nero pece. Al suo interno emergono dall’oscurità soltanto un tavolo, alcune sedie, una poltrona consunta. Seduta nell’ombra, Silvia Pasello accoglie immobile il pubblico del Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci, le mani appoggiate sulle ginocchia, in un gesto che è al contempo di resa e di placida consapevolezza, di attesa e di indifferenza. Accanto alla sua figura si intravede, al centro del tavolo nudo, un bonsai in un piccolo vaso blu, unico altro elemento vitale di un ambiente che tradisce una rassegnazione diffusa, quasi una stanca adesione a quel rituale borghese ‑ il teatro ‑ per il quale si è incomprensibilmente disposti a pagare «due biglietti in prima fila per assistere alla vita di uno che non fa niente». Anche surreali affondi metateatrali emergono nella drammaturgia firmata da Michele Santeramo e affidata, tre anni dopo l’esperienza di Alla luce, alla produzione della Fondazione Teatro della Toscana, nella sua componente del Teatro Era / Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale: ma questi accenni di una teoria della spettatorialità sono forse fin troppo amplificati dalle cinque sedie poste sul proscenio, sulle quali, spalle al pubblico, si accomodano nelle pause sceniche gli attori, in una continua contemplazione di quell’universo quotidiano che si dipana sul palco.
Situazioni comuni e minimali si susseguono infatti nella trama tratteggiata da Santeramo e che vede dialogare una coppia non più giovane, il fratello di lei, un medico e il proprietario dell’appartamento in cui vive la coppia: un’ordinarietà plasmata da acquisti al mercato, compleanni, bollette da pagare, malattie. A conferire eccezionalità alla vicenda la composta imperturbabilità con cui il protagonista affronta la prossima, inevitabile morte della moglie e con essa l’intera esistenza: un irrimediabile e filosofico atteggiamento di inazione, dettato dalla profonda consapevolezza della fine imminente. Citando il titolo di un romanzo di Julian Barnes, è il senso di una fine ‑ quella della donna ‑ e al contempo il senso della fine in sé, della caducità del reale e della conseguente futilità delle azioni umane, a determinare in questo antieroe folle e profetico l’ultima decisione possibile: quella di non fare, di non agire, di non partecipare né alle piccole manutenzioni dei legami né tantomeno ai grandi giochi degli affari e delle economie. Michele Santeramo è un nullafacente assoluto: ha abbandonato il lavoro, ha smesso di pagare l’affitto, ha interrotto qualsiasi attività. Il suo torpore è totalizzante, e in quanto tale impolitico ed esistenziale: non una semplice rivolta contro il dominio manipolatorio del mercato, né una passiva resistenza a un sistema tentacolare, bensì un rifiuto di ogni gesto talmente radicale da coinvolgere la sfera dei desideri, delle pulsioni, degli affetti. Il nullafacente compra le verdure ai mercati generali, tra gli scarti del giorno, e le consuma ancora crude; non legge, non passeggia, esiste soltanto e semplicemente nella dedizione con cui si prende cura del bonsai.
La vita di quella pianta, nella quale l’imponenza dell’albero è miniaturizzata alla dimensioni del vaso, si fa modello e aspirazione irraggiungibile per un uomo al quale la società ‑ resa attraverso le interazioni con il locatore (Michele Cipriani), il cognato (Francesco Puleo) e il medico (Tazio Torrini) ‑ sembra imporre obblighi privi di significato: i contratti e il denaro, così come le relazioni sentimentali e i loro diagrammi di diritti e doveri, sembrano assurdità se paragonate alla stoica capacità del bonsai di resistere ai contraddittori imperativi dello sviluppo e della contrazione. Agli occhi di quest’uomo anche soccorrere la moglie (Pasello) caduta a terra tra spasmi di lancinante dolore, appare come un’incombenza superflua: la morte la attende comunque, rendendo vano qualsiasi atto d’amore. La scrittura di Santeramo distilla una riflessione sul tempo, unico sovrano dell’orizzonte degli eventi, all’interno di un intreccio in cui l’inazione appare non tanto come improbabile possibilità di resistenza alle follie del vivere contemporaneo, quanto piuttosto come unica, sensata reazione allo scandalo della morte, all’orrore delle cronologie con cui arginiamo e codifichiamo il reale. «Il problema è il sabato», confessa il nullafacente alla moglie all’inizio del dramma, quasi a voler accusare calendari e orologi, ricorrenze e candeline accese su torte di compleanno, della loro violenta natura di memento mori.
Roberto Bacci agisce con parsimonia sulla densità concettuale del testo: operando soprattutto attraverso le interazioni spaziali tra gli attori, sembra affidarsi soprattutto all’interpretazione di Michele Santeramo, che emerge in un gruppo non perfettamente coeso rivelandosi attore di grande naturalezza. Capace di imprimere al proprio personaggio una risolutezza flemmatica e ascetica, Santeramo fa proprie la coerenza necessaria a sostenere l’inquietudine del tempo, così come l’inerzia in cui sembra celarsi l’unica possibilità di fronteggiarne le conseguenze: che, oscure, sembrano affacciarsi nel dietro le quinte, nel silenzio delle musiche, nello spegnersi di tutte le luci.
Alessandro Iachino
visto al Teatro Studio Mila Pieralli, Scandicci – marzo 2017
IL NULLAFACENTE
di Michele Santeramo
regia, spazio scenico Roberto Bacci
con Michele Cipriani, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Michele Santeramo, Tazio Torrini
musiche Ares Tavolazzi
luci Valeria Foti, Stefano Franzoni
assistente alla regia Silvia Tufano
assistente ai costumi Benedetta Orsoli
allestimento Sergio Zagaglia, Leonardo Bonechi
immagine Cristina Gardumi
fotografie Guido Mencari
produzione Fondazione Teatro della Toscana