L’esecuzione di Vittorio Franceschi è un testo carico di simboli, di poetico e violento surrealismo, nella messinscena di Marco Sciaccaluga viene però addomesticato a una visione teatrale di rappresentazione. Recensione
Un grumo di carne sanguinolenta immobilizzato su una sedia, legato; una benda sporca di sangue sugli occhi, le mani come due moncherini. Rimarrà così per tutto lo spettacolo diretto da Marco Sciaccaluga, Vittorio Franceschi, autore e attore di un testo scritto una decina di anni fa, L’esecuzione. Nella sala piccola dell’Arena del Sole di Bologna, fino al 21 aprile, nella scena di Matteo Soltanto – abitata insieme a un’altra attrice dalla lunga e caratteristica esperienza, Laura Curino – un vecchio soldato aspetta la morte, attende che qualcuno esegua la condanna. Sappiamo di lui che è un disertore, che probabilmente torna in questa parte di mondo dopo un lungo periodo di tempo, ma basta poco a capire che la narrazione distopica è utilizzata da Franceschi come metafora, anzi come un campo sterminato di metafore. L’esecuzione è un paesaggio letterario nel quale l’autore misura la propria fantasia di scrittore che per accumulo partorisce allucinazioni sconnesse una dietro l’altra, senza apparente soluzione di continuità se non quei minimi puntelli drammaturgici che servono allo spettatore per ritrovarsi all’interno di un labirinto di citazioni, simboli e rimandi – teatrali, biblici, poetici.
Il tempo scorre e la guardiana – quella che Renato Palazzi nell’introduzione al testo edito da Cue Press chiama «la suscitatrice dei ricordi altrui» – sposta le lancette di un orologio: è lei dunque a decidere quando sarà l’ora per morire e quanto ancora il condannato avrà da vivere? Nel suo volto ingenuo, nell’incedere da infermiera premurosa, nasconde forse la capacità di determinare anche il destino? La donna è protagonista di racconti antichissimi, conosce la storia di quel luogo che ora è prigione diroccata, ma che un tempo è stato il «postribolo» dei popoli. Lei è l’occhio del mondo e ora si prende cura di quel malcapitato raccontandogli del figlio morto e di quello acquisito, di quando fu stuprata dai soldati, del momento in cui sparì tutto l’inchiostro perché in ogni Stato decisero di gettarlo nei fiumi, che, si sa, «hanno calligrafia migliore», oppure di quando vietarono fiammiferi e fuochi.
I due in effetti si scambiano storie, o meglio microstorie: però quello che emerge è un paesaggio complessivo, una sorta di Pianeta Terra pieno di escrescenze cresciute disordinatamente, dove piccoli spiragli di sole e di speranza lottano ostinatamente contro il buio, la desolazione e la violenza di un’epoca deserta in cui l’umanità deve poter ricominciare.
C’è, fortunatamente, un guizzo ironico, sul quale cerca anche di appoggiarsi spesso il Franceschi attore, un guizzo che in realtà si palesa fin dalle prime battute: «Mentre mi accecavano ho pensato: imparerò il Braille. / Non potevo immaginare che il giorno dopo mi avrebbero mozzato le mani». Ma tra i momenti in cui la scrittura libera e gioiosamente antinarrativa di Franceschi lascia i segni più incisivi vi è il racconto in cui il soldato rivela di aver tentato, una volta, di cercare la propria anima all’interno del suo corpo: rincorrere la parte più sublime di sé nello spaventoso organico, dalla bocca impastata di saliva e denti malati fino al ventre, negli spazi cui in tutte le malattie si annidano in attesa di scoppiare. Una fantasticheria leggera e orrorifica al tempo stesso, che ben rappresenta l’anima stessa del testo.
Sul finale il pubblico può intuire qualcosa di tremendo: forse l’esecuzione arriverà per mano di un plotone di bambini, prefigurazione apocalittica di un destino edipico già innescato con la cecità. Simboli e rimandi, come già detto, si affastellano, è il caso del momento in cui vengono nominate le albicocche, facilmente riconducibile al Pirandello de L’uomo dal fiore in bocca.
Eppure la traduzione spettacolare (la produzione è di Ert e Teatro Stabile di Genova) percorre altre strade: la fantasia nella regia di Sciaccaluga è inversamente proporzionale a quella che troviamo nel testo; si limita a dar voce scenica alla drammaturgia in un impianto visivo che nulla nasconde proprio alla fantasia. Così lo spettatore si ritrova di fronte un uomo immobile, perfettamente vestito da soldato, in uno spazio che tenta di imitare perfettamente ciò che la prima didascalia del testo scrive. Si crea inevitabilmente un gap tra la platea e la scena (amplificato dalla conformazione ad anfiteatro latino della sala piccola dell’Arena del Sole). Imporre una messinscena “quadrata”, puntuale nella lettura della drammaturgia e senza sorprese anche nella recitazione, è stata forse una scelta derivata dalla volontà di valorizzare proprio la libertà letteraria del testo? Forse, ma il risultato mette a dura prova la pazienza e l’attenzione dello spettatore. Quella libertà che la parola lirica di Vittorio Franceschi si scava nella solitudine della lettura rimane invece imbrigliata sulle assi del palcoscenico, nelle regole oppressive della rappresentazione.
Andrea Pocosgnich
Visto all’Arena del Sole di Bologna, fino al 21 aprile 2017
L’ESECUZIONE
di Vittorio Franceschi
regia Marco Sciaccaluga
personaggi e interpreti
Il disertore Vittorio Franceschi
La guardiana Laura Curino
scene e costumi Matteo Soltanto
luci Vincenzo Bonaffini
musiche Andrea Nicolini
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena/macchinista Marco Palermo
capo elettricista Vincenzo Bonaffini
fonico Giampiero Berti
sarta Anna Vecchi
amministratrice Elisa Faletti
assistente alla regia Virginia Landi
ufficio stampa Silvia Pacciarini
foto di scena Luca Bolognese
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro da Gioacchino Gramolini (capo costruttore), Sergio Puzzo, Marco Fieni, Riccardo Betti – decoratrici: Elena Giampaoli, Lucia Bramati – realizzazione costumi: Anna Vecchi
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile di Genova
Prima assoluta
Pubblicazione testo
L’esecuzione
2017 Cue Press
Contributi di Renato Palazzi e Gerardo Guccini