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Il Macbeth in esilio del Teatro dei Limoni

Canned Macbeth prodotto dal Teatro dei Limoni e diretto da Roberto Galano è stato presentato nella rassegna DOIT Festival, Drammaturgie Oltre Il Teatro. Recensione

Foto di Mario Amoreo
Foto di Mario Amoreo

Giunto alla sua terza edizione, DOIT Festival Drammaturgie Oltre Il Teatro conferma l’intento di presentarsi come un momento festivaliero, quest’anno lungo quattro settimane, distaccato dalla consueta stagione teatrale romana. Curato dalla tenacia e impegno di Angela Telesca e Cecilia Bernabei, la rassegna organizzata all’Ar.Ma Teatro (ex Teatro Millelire) ha presentato un cartellone di spettacoli di teatro contemporaneo aperto alle nuove generazioni, ad altre realtà teatrali provenienti fuori regione, dialogando col pubblico (negli incontri con registi e critici post spettacolo) e focalizzando l’attenzione sul valore drammaturgico di ciascuna opera, in gara nel concorso organizzato in collaborazione con L’Artigogolo e che decreterà il vincitore nell’ultima serata.

Foto di Mario Amoreo
Foto di Mario Amoreo

Nella sua piccola, ma pur sempre significativa, sfera di ascolto, il festival ha saputo far gravitare intorno a sé un pubblico affezionato – difficile infatti riconoscervi “i soliti spettatori” – fidelizzato quanto basta da permettere alla rassegna di replicare la sua presenza per il terzo anno di fila. E possiamo ben riconoscere quanto possa essere difficile organizzare una rassegna, in un periodo non festivaliero, e col rischio di non incontrare la risposta dell’imprevedibile pubblico.
Torna nello spazio di via Ruggero di Lauria anche il Teatro dei Limoni, compagnia foggiana, con lo spettacolo Canned Macbeth Dialogo per due attori diretto e interpretato da Roberto Galano e scritto da Letizia Amoreo, il cui testo è pubblicato dalla casa editrice Nowhere Books nella collana teatro.
Se spesso il cruccio di molti autori e registi è quello di pensare a un adattamento originale e “contemporaneo” dei classiconi shakespeariani, in questo caso invece Amoreo sceglie la forma del sequel: il dramma di Macbeth non si conclude con la morte ma in una vita, in parallelo, nella quale i protagonisti sono prigionieri reclusi di un popolo stanco delle nefandezze del sovrano.

Foto di Mario Amoreo
Foto di Mario Amoreo

Fantasia autoriale che sembra nascere più nel contesto post moderno delle serie e fiction americane che nell’alveo teatrale, Canned Macbeth si articola nell’orizzonte del “se” divertendosi, e dilettando anche gli spettatori, a giocare sulla possibilità attualizzante dell’opera. Incontriamo nuovamente Roberto Galano, padrone della claustrofobica scena di Nicola Delli Carri adibita a rifugio/bunker: un lungo tavolo al centro con due sedie ai lati e quattro funi che lo inchiodano al soffitto insieme a un letto, sospeso nel fondo, sempre attaccato al soffitto da tiranti. Due grandi oggetti a dividere a metà lo spazio, quasi un interno giorno e interno notte abitato dalle voci del passato nel tessuto sonoro di Giorgio Castriota Skanderbergh che alterna registrazioni di vecchi adattamenti a suoni di guerra. Tanto nell’insonnia notturna che nel delirio mattutino, si sente riecheggiare l’ammonimento, tragico, di quel «Salute a te Macbeth, che un giorno sarai re» ormai incorporato dalla fisicità di Galano: padrona nella consapevolezza dell’esilio sempiterno e schiava docile e ingenua della furente pazzia che a tratti lo acceca. Lady Macbeth (Maggie Salice) è devota moglie, amica, serva, madre pronta a rispondere delle mancanze del marito, impedendogli, a volte, di guardare la realtà con spietata oggettività. Nel tentare un ritorno (rappresentato dai messaggi scambiati troppo frettolosamente con gli emissari rivoluzionari ormai, loro, padroni del regno), la donna vorrebbe preservare il marito dalla perdita di potere per mantenere in equilibrio quel quadro che li raffigura, appeso alla sinistra della scena e sempre costantemente storto. L’interpretazione di Salice è morigerata, dimessa, non riesce a imporsi con forza come protagonista, sovrastata al contrario dalla vis di Galano. Perciò risulta spiazzante il momento dedicato alla danza, una sorta di taranta compulsiva e dolorosa che partorirà una cruenta immagine di lei tesa a strapparsi un pezzo di carne cruda dal basso ventre per poi macinarlo nel tritacarne sul tavolo. Un realismo di cui non se ne sente il bisogno, basterebbero i quotidiani pasti a base di carne cruda che i due sono costretti a condividere l’uno con l’altra alle estremità del tavolo, quasi un contrappasso a testimoniare quella colpa sanguinaria e truculenta di cui si sono deliberatamente macchiati.

Lo spettatore stuzzicato partecipa al gioco drammaturgico ma già sa come andrà a finire la storia. In fin dei conti quel quadro di famiglia resterà storto e i due sovrani esiliati non torneranno mai in auge. Non c’è nulla da raddrizzare perché ormai tutto è andato distrutto: il testo, pur nella sua curiosa e originale ipotesi futuribile, resta comunque piegato e sottomesso a quello originale, mantenendo una, prevedibile, linea di continuità e coerenza col passato.

Lucia Medri

Ar.Ma Teatro – aprile 2017

CANNED MACBETH
Dialogo per due attori

di Letizia Amoreo
regia Roberto Galano
con Maggie Salice e Roberto Galano
Luci e Audio Giorgio Castriota Skanderbergh
Scene Nicola Delli Carri
Costumi Vize Ruffo
Produzione Teatro dei Limoni – PUGLIA

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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