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I Giuramenti del Teatro Valdoca per tornare alla parola originaria

Il Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri debutta in prima nazionale al Teatro Bonci col nuovo spettacolo Giuramenti. Abbiamo pensato di chiedere loro alcune parole, le altre giurano sarà il teatro a dirle. Intervista


Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.

Foto di Maurizio Bertoni
Foto di Maurizio Bertoni

Quella di Henry David Thoreau in Walden sembra una didascalia nata apposta per anticiparvi, presentandovi. Cesare, spiegami se il Teatro Dimora di Mondaino conferma la tua intenzione di vivere profondamente.

Bella questa citazione di Thoreau, soprattutto pensando al ruolo fondamentale che ha avuto il bosco in questa opera. Sotto la guida di Lucia Palladino ogni giorno i ragazzi andavano nel bosco, dove i rami e i rovi erano più intricati, quasi a perdersi o forse a diventare loro stessi parte di quell’intrico, di quel fango. La mia intenzione di vivere profondamente? Mi colpisce questa domanda. Credo che tutto il mio spendermi in teatro venga dall’urgenza di vivere pienamente al presente e dando il massimo di sé, e allo stesso tempo vivere quello che non c’è, che non si vede e non si sente perché l’arte ha questa funzione di tenere al presente anche l’assenza che tutti noi portiamo. O forse ciò da cui manchiamo.

Il giuramento è, prima ancora che una dichiarazione, una possibilità di trasformazione: l’unica condizione in grado di legare i sensi dell’uomo alle azioni, di poter traghettare il linguaggio dell’intenzione fino alla potenza della sua realizzazione. Mariangela, i vostri giuramenti fanno questo?

In realtà in scena non arriviamo a pronunciare veri e propri giuramenti. È tutto lo spettacolo ad avere la timbrica di un giuramento. Fra tanta vana parola che dà spettacolo cercavamo una parola che avesse la solennità, il piglio, la fermezza, la follia di quello che Agamben definisce come «punto sacramentale del linguaggio». Volevamo tornare alle potenze originarie della parola, quelle per cui ogni sillaba, nella lingua corrente, suda di nostalgia.

La gestazione delle opere del Teatro Valdoca assomiglia a quella umana, ogni organo si sviluppa contemporaneamente all’altro e realizzazione e scrittura hanno la stessa età. Di chi è il seme?

È vero, tutto cresce insieme nel nostro processo creativo. Io penso che il seme sia soprattutto di Cesare che cura la regia e anche la drammaturgia. Io ci metto le parole, è vero, ma senza la sua attesa ferma, la sua certezza che queste parole verranno, il suo amarle in anticipo, credo che la mia scrittura, nel suo colore più epico, faticherebbe a nascere. O forse il seme ce lo metto io e lui è il terreno fecondo che lo fa crescere, insieme agli attori e a tutto il complesso sistema di cui sta alla guida.

Dodici interpreti in un Coro. Che tipo di lavoro sull’attore permette che dodici diversi pensieri coesistano ognuno nella sua singolarità?

Foto di Ana Shametaj
Foto di Ana Shametaj

È forse proprio la sospensione del pensiero a fare sì che in scena i corpi divengano un solo corpo, cioè Coro, ed è per quella sospensione, per arrivare a quello stato di attenzione spalancata e forse animale, che i tre mesi di vita appartata e selvatica all’Arboreto di Mondaino sono stati decisivi. Poi c’è stato il canto, e anche il canto è un disattivatore di coscienza, c’è stata in comune la lingua solenne e verticale dei versi di Mariangela, una lingua che in quanto poesia ha in sé anche i poteri della musica, ed anche la lingua filosofica di Lorella Barlaam che sempre in risposta al presente nominava con precisione ciò che si andava vivendo, permettendo loro di avventurarsi nel bosco, selvaticamente ma in un certo senso ritualmente. La vita dei corpi nel movimento e nella danza, la vita insieme, l’avventura insieme e l’espressione, tutto questo ha legato, coeso, sigillato fra loro le singolarità.

Quindi, senza per forza la necessità di giurare, cosa avrà indietro da voi il pubblico?

Questo è il punto di massima cecità: non sappiamo ancora che cosa abbiamo fatto e non vediamo l’ora che il debutto ci riveli per intero l’abisso che abbiamo percorso dentro di noi e che ora ci sta per apparire. Possiamo dire solo il nostro desiderio. Vorremmo che accadesse il massimo di cui il Teatro è capace, puoi chiamarlo catarsi, anche se la parola andrebbe ricaricata, insomma, un miracolo, di rivelazione. Un comune e profondo sentire.

Francesca Pierri

dal 12 al 14 aprile 2017, Teatro Bonci

GIURAMENTI

regia, scene e luci Cesare Ronconi
testi Mariangela Gualtieri
drammaturgia del corpo Lucia Palladino
guida del canto Elena Griggio
con Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella, Marcus Richter, Gianfranco Scisci, Stefania Ventura
cura e ufficio stampa Lorella Barlaam
costumi Cristiana Suriani
proiezioni Ana Shametaj
costruzioni in legno Maurizio Bertoni
scultura in ferro Francesco Bocchini
produzione Teatro Valdoca
con la collaborazione di L’Arboreto – Teatro Dimora, Teatro Petrella di Longiano
con il contributo di Regione Emilia Romagna, Comune di Cesena, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
con il sostegno di Emilia Romagna Teatro Fondazione

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Francesca Pierri
Francesca Pierri
Laureata in Filologia Classica e Moderna con una tesi magistrale in Letteratura Comparata all'Università degli Studi di Macerata, frequenta il master in Critica Giornalistica con specializzazione in Teatro, Cinema, Televisione e Musica presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" a Roma. Ufficio stampa e comunicazione, continua la sua attività redazionale collaborando con la Rai - Radiotelevisione Italiana. Vive a Roma e da gennaio 2017 è redattrice di Teatro e Critica.

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