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Giancarlo Sepe. Il presente è una questione di classici

Giancarlo Sepe porta in scena Washington Square nel suo Teatro La Comunità, prodotto in collaborazione con la Compagnia Umberto Orsini. Recensione

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Ancora sotto sfratto e a un anno di distanza dalla minaccia di sgombero da parte del Comune di Roma che lo ha costretto dapprima a chiudere e in seguito a fare ricorso al Tar (ricorso poi bocciato), Giancarlo Sepe e il suo Teatro La Comunità continuano a lavorare e produrre spettacoli in attesa che il Consiglio di Stato normalizzi la posizione dello storico luogo in via Zanazzo. Dopo aver inaugurato la stagione ad ottobre, in collaborazione con la Compagnia Umberto Orsini Sepe porta in scena in questi giorni Washington Square, Storie americane, la sua ultima regia ispirata all’omonimo romanzo di Henry James, pubblicato nel 1880 e appartenente alla prima fase creativa dello scrittore e critico americano.
A un primo incontro con la scena e i costumi ricercati e prestigiosi di Carlo De Marino, Washington Square si presenta in continuità con i due precedenti spettacoli di successo Amletò e Dubliners, programmati in festival di rilevanza internazionale come quello di Nancy, di New York, La Versiliana Festival e il Festival dei Due Mondi di Spoleto.

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Lo spettacolo è, nella scelta registica di Sepe, «un pamphlet dedicato alla lotta delle donne americane per ottenere la parità dei diritti […] tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento»; non è un caso infatti che venga presentato ora, in un momento di grande attenzione mediatica in tutto il mondo nei confronti delle rivendicazioni dei diritti delle donne. La storia, o meglio le storie, ruotano attorno alla figura modesta di Catherine Sloper (Federica Stefanelli) figlia del famoso medico di città il Dott. Austin Sloper (Pino Tufillaro), convinta – a iniziare dalla sua ostinazione, pretestuosa, di sposare Morris Townsend (Guido Targetti) – nell’esercitare il proprio diritto di autodeterminazione contro una società perbenista, puritana e patriarcale. L’azione scenica è tutta concentrata nelle pareti di una sala finemente rivestita del museo cittadino, sullo sfondo un muro dove campeggiano le scritte Past Present e Future, sovrastate in alto dalla bandiera americana. La drammaturgia, accurata nei dettagli e nell’orchestrazione dei movimenti, si articola in parti cantate dedicate alle «romanze musicali», in balli simili alle line-dance (forma popolare della quadriglia) e in monologhi dei singoli protagonisti recitati, come tutto il testo dello spettacolo, in lingua inglese. Con un’espressione dalle tinte fosche che si contrappone al pallore dei volti, i personaggi sono parte di una civiltà di passaggio tra due secoli nodali per la storia americana, fatta di figli mandati in guerra, di rampolli benestanti e sopratutto di donne, e del loro ingresso politico in società, testimoniato dai riferimenti alle manifestazioni delle suffragette.

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Tuttavia il testo non riesce a spingersi a fondo nella riflessione politico-ideologica, sembra infatti mantenersi sulla superficie piana della riproposizione storica, e museificata, delle vicende, senza porsi in dialogo diretto con il contemporaneo. L’ensemble degli attori, nove interpreti in totale, risulta all’altezza della prova tanto nella recitazione in lingua che nelle parti cantate, se non fosse che lo spettatore potrebbe a tratti soffrire il pathos e lo struggimento di alcuni momenti e trovare difficoltà nella comprensione dei testi delle canzoni, le cui parole sono spesso disperse nel bisbiglio e sovrastate dalla musica. Di raffinato e equilibrato impatto emotivo è la canzone/monologo finale di Lavinia Penniman, zia di Catherine, interpretata da Adele Tirante, autentica anche nelle lacrime che le rigano il volto di nero, per il mascara disciolto nel pianto.

La cifra stilistica di Sepe persegue, dopo circa quaranticinque anni di attività, nel riproporre una propria e riconoscibile linea di tradizione nella quale è possibile rintracciare la volontà di interrogare il presente (vedi le manifestazioni internazionali dei movimenti femministi), attraverso sia il punto di vista di autori celebri appartenenti al passato che l’accurata scelta registica e scenografica di un modello, ormai classico, di sperimentazione del linguaggio scenico tra parola e gesto.

Lucia Medri

in scena al Teatro La Comunità, aprile 2017

WASHINGTON SQUARE
storie americane

Uno spettacolo di GIANCARLO SEPE

con Pino Tufillaro Federica Stefanelli Guido Targetti Pietro Pace Sonia Bertin Ema Panatta Marco Imparato Adèl Tirant Silvia Maino

Una Produzione Compagnia Umberto Orsini – Teatro La Comunità

Musiche a cura di Davide Mastrogiovanni
Disegno Luci Guido Pizzuti
Scene e Costumi Carlo de Marino
Scenografo collaboratore Flaviano Barbarisi
Assistente Scenografo Anna Seno

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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