Amleta è il lavoro ideato da Francesca Tricarico con Le Donne del Muro Alto per la sezione femminile di Rebibbia. Ma il teatro in carcere è a forte rischio
È il tempo della riqualificazione, che si tratti di aree urbane lasciate al disfacimento o il comparto monumentale delle città d’arte, il gran lavorio attorno al ripristino sta via via affermando una volontà di aumentare la qualità della vita a contatto con i luoghi della comunità. Ma se tale è l’impegno per ciò che ravviva il paesaggio su larga o ridotta scala, per paradosso quando necessario è convogliare energie in direzione della riqualificazione dell’uomo ciò non appare con tanta evidenza, ignorando bisogni e così disumanizzando l’umano. Nel territorio della colpa, precisamente, questo assunto sembra far coesistere il reato con la condanna, confluite in un comune destino che proprio sull’uomo incombe e che definisce la difficoltà alla traduzione della condanna stessa in un percorso di riabilitazione. Là dove la reclusione costringe lo sguardo in un luogo oscuro in cui avvertire la privazione di libertà, a partire proprio dal divieto di proiezione verso lo spazio esterno, proprio il teatro ha fornito – per poco noti o altri celebri casi – il campo di sperimentazione tra i più fruttuosi di recupero, attraverso un movimento contrario all’alienazione, un processo che potremmo chiamare di “riumanizzazione”, capace di ricostituire il contenuto spirito nella forma corpo, per forse la prima volta fornire strumenti di gioco e discutibilità degli eventi, dimenticati con la prima infanzia.
In tali contesti l’attività teatrale, oltrepassando l’ovvietà tuttavia non banale dell’intrattenimento ludico in ogni caso determinante, riconferma la propria essenza originaria di profondità, come rinvenisse nel fondo dell’animo umano quegli elementi che una volta fuori, messi in discussione perché rappresentati, possono diventare materiali con cui ricostruire l’edificio uomo, minato dall’abbrutimento distruttivo in cui il disagio prima, il reato e la detenzione poi, hanno finito per comprimerlo.
Se dunque noto è il percorso quasi trentennale della Compagnia della Fortezza, fondata e diretta da Armando Punzo all’interno della Casa di Reclusione di Volterra, se il lavoro di Fabio Cavalli a Rebibbia è stato portato dal cinema all’attenzione nazionale con il Cesare deve morire firmato dai fratelli Taviani nel 2012, tanti e meno noti sono i progetti che attraversano le carceri italiane, cercando di sopravvivere contro il disinteresse istituzionale e le condizioni di lavoro ridotte al ribasso. Tra di esse è quella de Le Donne del Muro Alto che Francesca Tricarico dirige nella sezione femminile del carcere di Rebibbia e che permette alle detenute di misurare loro stesse con un’arte di relazione, di conflitto rappresentato, permette cioè di comparare il dato reale della loro reclusione alle motivazioni profonde di donne, ossia al vero grande rimosso della loro identità reclusa.
Nel teatro della sezione femminile, minuto ma confortevole, capace di ospitare anche una piccola ma efficiente dote tecnica, in occasione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere del 27 marzo, le detenute hanno dato vita ai materiali che compongono il lavoro Amleta, rilettura al femminile del capolavoro shakespeariano; non molte scene, utilizzate quasi esclusivamente in forma dimostrativa, ma che stimolano curiosità per l’intenzione poetica affascinante di far risuonare nella condizione femminile le proporzioni del disagio interiore amletico. Molti i presenti, anche – e soprattutto viene da dire – provenienti dall’istituzione carceraria, ma a stupire è la mescolanza di pubblico “estraneo” e pubblico “interno”, ossia le altre detenute ammesse per sostenere le proprie compagne. Già perché non si tratta di esclusivo conforto emotivo all’arte della scena, ma di un vero e proprio atto di presenza per un’attività che sta rischiando fortemente di essere cancellata, in virtù di una sostenibilità inadeguata alla necessità (qui è possibile acquisire informazioni migliori e versare una quota di sostegno). Se dunque il teatro, proprio perché morente in un’epoca che non ne riconosce il valore, può riformulare i canoni della società civile a partire dalla relazione, non è comprensibile tale disinteresse a un’attività a tal punto primaria e vitale: il carcere è un terreno più fertile di altri per rinnovare il patto di acquisizione di coscienza tramite il passaggio in arte, perché del mondo libero non ha esperienza che dal sogno, da quello scarto tra realtà e apparizione in cui più facile, più nobile, è trovare il seme nascosto dal quale germoglia, imprevisto, teatro.
Simone Nebbia
Casa Circondariale di Roma Rebibbia Femminile – marzo 2017
OLTRE IL MURO, DIETRO LE QUINTE
IN VIAGGIO CON AMLETA
Regia Francesca Tricarico
Musiche Gerardo Casiello
Aiuto Regia Chiara Borsella, Annalisa D.
Con le attrici detenute della sezione AS: Annalisa, Stefania, Teresa, Marianeve, Loredana
Racconto Fotografico di: Danilo Garcia di Meo
Ufficio Stampa: Erika Cofone