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Diffondere il jazz con con il teatro. Intervista alla BOP Jazz Theatre Company

Abbiamo incontrato a Londra Dollie Henry e Paul Jenkings, direttori artistici di Bop – Body of People. Intervista

Dollie Henry_flamencoCORPOBOP Jazz Theatre Company è una compagnia internazionale con sede a Londra, che ha come obiettivo la diffusione del jazz, in tutte le sue espressioni e variazioni, danza, musica, teatro.  Fondata e diretta nel 1996 da Dollie Henry, coreografa e insegnante internazionale, e Paul Jenkins, musicista, produttore e compositore, sin dal’inizio ha rotto gli schemi del tradizionale scenario da “piccolo jazz club” portando i propri spettacoli su un palcoscenico teatrale e dando loro respiro e profondità. Ispirandosi ai capolavori dei giganti del jazz, BOP ha re-interpretato creativamente l’universo musicale e il retroterra socio-culturale dando vita a show originali il cui cuore era di volta in volta il genio di Miles Davis (Touches of Miles), Duke Ellington (Duke’s Place), Dizzie Gillespie (Dizzie Heights), e molti altri ancora.
Confrontandosi con una oggettiva carenza di comprensione o di riconoscimento, oggi, della danza jazz in quanto forma artistica in grado di attrarre un pubblico ampio, al centro dell’approccio, della ricerca ed evoluzione della compagnia risiede la necessità e volontà di entrambi, Dollie e Paul,  di lavorar per una fruizione consapevole e partecipata da parte dello spettatore.

Qual è l’orizzonte artistico al quale guarda la BOP Jazz Theatre Company?

Paul Jenkins: L’obiettivo è di sviluppare un’ampia piattaforma del jazz come forma d’arte inclusiva, formando un pubblico a partire da tutti coloro che vi sono coinvolti. Stiamo cercando di rompere un po’ con il clichè del piccolo club dove di solito suonano i musicisti jazz. Vogliamo attrarre un pubblico che possa apprezzarne la diversità e la natura artistica. Per questo portiamo i nostri spettacoli su un palcoscenico teatrale. Ormai l’intrattenimento è globale, riguarda tutti gli aspetti, visivi, sonori, recitativi, mentre il jazz theatre in qualche modo inquadra in modo specifico il nostro lavoro e dunque è più ‘impegnativo’ per uno spettatore comune.
Dollie: non solo gli spettatori, ma anche i performer compiono un viaggio. La compagnia s’impegna in un viaggio – in termini di impegno artistico –,  cerchiamo insomma di offrire qualcosa di originale. Questa è la via del jazz: non ripetere ciò che è stato fatto.
Paul: In generale c’è una mancanza di comprensione rispetto a come è percepito il jazz; molte persone hanno difficoltà a metterlo allo stesso livello ad esempio della danza classica o della danza contemporanea: per loro è inferiore.

DollieHenry&PaulJenkinscorpo
ph: Maya De Almeida Aranjo

Paul, come descriveresti il tuo lavoro di compositore di musica originale per BOP?

Paul: La chiave è la mia collaborazione con Dollie. Quando lei ha la visione di ciò che potrebbe essere da un punto di vista teatrale, posso attivarmi nella composizione delle musiche. Scrivere per i danzatori però è un tipo particolare di composizione: da un punto di vista musicale ogni unità ritmica può essere divisa in tante diverse sotto-unità ed è proprio in queste ultime che si trovano gli spunti su cui è interessante lavorare, perché è a quelle miriadi di sotto-unità che risponde il corpo dei danzatori. Il mio lavoro come compositore consiste nel rendere quell’unità ritmica sufficientemente essenziale perché possano concentrarvisi ed allo stesso tempo abbastanza interessante cosicché il loro corpo diventi parte di ciò che li circonda e dell’intera creazione scenica. L’altro aspetto importante è che ogni volta o interpretiamo la musica di Miles Davis, o Dizzie Gillespie o Charlie Parker oppure se vogliamo creiamo una nuova composizione originale ispirata da quella musica.

Dollie, quali sono state le figure chiave per il tuo lavoro di coreografa?

Dollie: Alvin Ailey è uno dei miei eroi, lo amo. Katherine Dunham ad esempio ha portato le radici del jazz africano nel teatro. Devo a donne come lei la mia formazione ed ispirazione, in quanto hanno mantenuto le radici africane ampliandole, portandole ad un altro livello, fondendole con il teatro, con il musical theatre.

Com’è nato il vostro pezzo “Footprints in jazz”?

Dollie: Credo che questo pezzo abbia definito BOP come compagnia. Apre lo show e nei nostri piani dovrebbe arrivare ad un’ora e mezzo di spettacolo.
Paul: In un certo senso è incompleto, è un’opera aperta, è il viaggio della danza jazz dall’Africa ad oggi. Volevamo realizzare uno spettacolo che ci permettesse di mostrare dal punto di vista teatrale i diversi stili, come si collegano alla musica ed alla danza. Abbiamo scelto un pezzo di Wayne Shorter, Footprints, che suonava quando era nella band di Miles Davis: ho preso in prestito la melodia, poi ho composto ed orchestrato tutto ciò che ci gira intorno. C’è una fusione del ritmo africano con l’armonia occidentale, emergono così i punti in cui i danzatori possono collegarsi.
Dollie: ci sono cori, vocals e gli archi che portano il viaggio ancora in un’altra direzione dal punto di vista compositivo, Paul sposa tutti questi suoni. Andare dentro la musica, in profondità, sentire cosa ha da dirmi, in quanto coreografa, per me è la genesi, è lo zucchero.

Dollie HenryParliamo di “Touches of Miles”, un classico del vostro repertorio.

Paul: Dollie voleva interpretare A Kind of Blue di Miles Davis, per molti uno dei migliori album di Miles, apparentemente un “classico album jazz”. Da un punto di vista coreografico, ha scelto la tecnica classica per fare un genere classico di danza jazz.
Dollie: Ci sono scene di flamenco nello spettacolo, c’è il blues e tutto è centrato sull’estetica delle linee, sui giri, sul tempo, sul flusso, volevo inserire qualcosa che riportasse alla danza classica. Miles usava la pittura in modo terapeutico, per allenare la sua creatività quando non suonava, quindi in queste scene ho inserito un pittore che dipinge l’amore della sua vita, la moglie Frances, una ballerina. Abbiamo preso spunto dalla sua vita reale e costruito una storia, una linea narrativa. Come coreografa sono molto narrativa, non mi interessano solo i passi, ma raccontare storie. Touches of Miles è uno show eclettico, è su Miles in quanto artista, non solo come musicista o compositore.
Abbiamo fatto lo stesso con Dizzie Heights, con la musica di Dizzie Gillespie. È uno spettacolo completamente diverso, ambientato interamente in un jazz club, tutti i danzatori sono personaggi, ognuno ha un nome e un colore che indossa, ci sono tavoli, sedie, un bar ed una band. Duke’s Place è dedicato a Duke Ellington, con un testo, parti vocali, cantanti, 12 danzatori, 9 musicisti. Il nostro repertorio è vario, vogliamo che BOP sia una compagnia versatile, ci interessa tutto ciò che può essere il jazz: lento, lirico, up-tempo, narrativo. In senso creativo non siamo statici, ci sfidiamo per rappresentarlo nel modo in cui dovrebbe essere rappresentato, in tutta la sua gloria. Occorre fare attenzione quando si parla di jazz: è uno stile di vita. Jazz non è solo una parola di quattro lettere, è qualcosa di imponente. Jazz is huge.

Cos’è la “Sunday Jazz Congregation”?

Dollie: Insegno danza jazz ai Pineapple Dance Studios di Londra da 20 anni. Ho chiamato la mia classe della domenica Sunday Jazz Congregation. È come una chiesa: io non vado in chiesa, il vero tipo di chiesa, la mia chiesa è qui [ndr. indica il cuore]. Per me andare in chiesa la domenica è permettere alle persone di entrare dalla mia porta, lì dove sentono che possono liberare se stessi e far parte della mia vita per un’ora e mezza. La Sunday Jazz Congregation è ciò che sono: me stessa. Non è solo l’esercizio fisico o la danza o la comunità che si forma lì, ma anche imparare, migliorare, fare ciò che ami. Noi lo facciamo tutti insieme: cosa c’è di meglio? Cosa può esserci?
Paul: c’è anche una connessione più alta che ha origine in come ci sentiamo quando ci troviamo in un ambiente creativo e ci apriamo, a tanti diversi livelli. Credo che questa sia la big connection, la connective connection nel creare in quanto gruppo.
Dollie: Danza, arte, creatività per me significano condividere, facciamo questo per essere persone migliori, per lasciar andare e guarire. Dico spesso: “Posso guarirmi con la danza: io la chiamo Doctor Dance”.

Carla Di Donato

Londra, Aprile 2017

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