Il drammaturgo e regista argentino Claudio Tolcachir dirige lo spettacolo Emilia prodotto dal Teatro di Roma. Recensione
Emilia è il ricordo che si concretizza sulla scena, apparizione materica di una sfaccettata emozione che vive di un amore potente, stratificato, in cui vivono agli opposti devozione e sopraffazione, amore infantile e ossessione morbosa, vita e morte, libertà e claustrofobia. Il testo di Claudio Tolcachir, dopo la messinscena con la sua compagnia Timbre4 (arrivata in Italia nel 2015), ha preso nuova vita in questa produzione del Teatro di Roma con un cast italiano di indubbia bravura e la regia dello stesso autore porteño.
L’allestimento al Teatro Argentina lascia che la scena strabordi oltre il limite del palco, quasi a invitare noi spettatori a intrecciarci con la materia trattata, a debordare oltre la visione e dirci partecipi del processo in azione. L’idea che soggiace in tutto lo spettacolo è quella di un ordine apparente che cela qualcos’altro, un disordine, un segreto, un disagio che lentamente viene alla luce. La scena è circoscritta da un quadrato di scatoloni, libri e una porta; una sorta di ring al cui interno si trova Walter, la sua compagna Caro e Leo, il figlio di lei. Walter porterà nella nuova casa Emilia, la sua tata incontrata casualmente dopo anni, ma che non ha mai smesso di provare un affetto per lui anche quando le loro strade si erano allontanate. I ricordi felici piombano su quella che appare una famiglia estremamente legata, tanto da chiedere all’anziana tata di rimanere prima a cena e poi a dormire. Ma se questa prima intromissione appare instaurare una dimensione positiva, il secondo personaggio a entrare nelle loro vite fa mutare diametralmente di segno il corso degli eventi, è Gabriel, il primo compagno di Caro e padre di Leo che, rimasto letteralmente nell’ombra del palco metterà in discussione la stabilità apparente degli altri. Allora l’immagine che appariva limpida si tramuta in un disegno distorto.
La storia, (della cui genesi di scrittura il regista ci ha raccontato durante questa intervista), è poco più che un pretesto per il fulcro centrale di quest’operazione, che vede nel lavoro con gli attori la sua espressione più meritevole. Di fatto si tratta di un gioco che evade dalla dimensione di dramma borghese che il testo rischia di assimilare non tanto per l’alternanza memoria-presente ma per quella cavità tra le battute in grado di accogliere le qualità interpretative dei cinque attori. Di Giulia Lazzarini ricorderemo la padronanza di ogni singolo tono, la tenerezza dei gesti, la gioia del suo personaggio, Emilia, in grado di presentare con semplicità mai banale ogni battuta. Il suo è un tocco gentile, mostra con leggerezza un personaggio che trascina il peso di una vita affatto lineare o tranquilla. Ci sembrano stonate le battute pronunciate all’inizio e rivolte alla platea «Scusi, cosa sta guardando lei? Perché mi guarda così, è spaventato? Imbambolato? Cosa potrei farle? Io da qui non sono più pericolosa», eppure un cambio luci ci rivela la maschera di un’ombra, proiettando a terra le barre di un carcere, luogo del presente in cui è lei a rievocare gli accadimenti. La sua Emilia è una complessità di sfumature, che sembrano passare dall’incoscienza all’amore che non conosce confini, legali o temporali.
Non da meno risultano essere Pia Lanciotti o Sergio Romano, lei donna quasi afasica, distante, timorosa eppure impavida, quasi bambina nel nascondere (o nascondersi) dietro drammi che non riesce a reggere; lui, incontrollabile Walter, dalla passione espansiva o pericolosamente invadente, generosi entrambi in scena nel mostrare debolezze e drammi delle follie di personaggi fatti propri. Anche Josafat Vagni regge bene il ruolo scomodo di un figlio per cui, al di là dell’età anagrafica, sono in circolo turbe e legami che rimangono quasi sempre inespressi, in un’apparente vitalità scenica in contrasto con la chiusura di un personaggio che sembra trovare serenità solo nella musica. Forse meno caratterizzato Gabriel, che arriva nel testo e nella scena più come detonatore degli equilibri, difatti la resa di Paolo Mazzarelli è statuaria e funzionale ma meno approfondita.
In questa dimensione falsamente intima si rivelano le fragilità dei rapporti, non serve una verosimiglianza da parte di questi personaggi per riflettere su quell’abitudine che rischia quasi l’asservimento; anche la noia data dalla reiterazione diventa necessaria perché si prepari alla rottura, alla rivelazione di quel momento in cui bisogna scegliere se assumersi o meno il dolore dell’altro. Tolcachir gioca a portare in scena una storia e dei personaggi che potrebbero essere veri, non lo sono, perché compiono azioni che apparirebbero fuori di senso, eppure come non riconoscersi in loro.
Viviana Raciti
Teatro Argentina, Roma – fino al 23 aprile 2017
EMILIA
scritto e diretto da Claudio Tolcachir
traduzione Cecilia Ligorio
con Giulia Lazzarini, Sergio Romano, Pia Lanciotti, Josafat Vagni, Paolo Mazzarelli
scene Paola Castrignanò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
regista collaboratrice Cecilia Ligorio
Totalmente d’accordo con lei: è il lavoro degli attori che nobilita un testo bello e denso di significati, talvolta compiaciuto di se stesso e delle sue ripetizioni, a creare quel clima di “tutto a posto, tutto in ordine” che cela disagi profondi. Il merito è del regista più che dell’autore, con poche sbavature (concordo sulla marginalità di Mazzarelli e, a mio avviso, anche di Vagni). Si esce dal teatro con la voglia di tornare ad ottobre per vedere l’allestimento dell’altro testo di Tolcachir, la famiglia Coleman.