Il regista Roberto Andò è stato nominato direttore artistico dell’Istituto Nazionale Dramma Antico (INDA). Intervista in occasione della presentazione della 53° edizione delle rappresentazioni classiche.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Robertò Andò, neo direttore artistico di quello che egli stesso preferisce definire «Festival di rappresentazioni classiche», per farci raccontare qualcosa sul nuovo corso che l’INDA intenderà intraprendere. A cominciare dalla presentazione dei tre registi, che per la prima volta si confrontano con lo spazio del teatro di Siracusa al ricordo di alcuni spettacoli significativi come Le Rane diretto nel 2002 da Luca Ronconi, per capire in che maniera le rappresentazioni classiche possano dialogare con il teatro e la società contemporanea.
Cosa vuol dire essere direttore di un’istituzione come il teatro greco di Siracusa, con le peculiarità e la storia che la contraddistingue?
È partita un po’ in sordina la mia esperienza, mi era stato chiesto di far parte di “un consiglio di saggi” che attorniava il Commissario Pier Francesco Pinelli, assieme a Luciano Canfora e Massimo Bray, poi sono diventato principalmente un interlocutore per la costruzione del programma di quest’anno e alla fine il Commissario mi ha chiesto di uscire dall’ombra. Mi piace la possibilità di poter far circolare un pensiero attraverso il lavoro degli altri, nello stesso tempo è anche una tentazione farlo in un luogo che ha delle caratteristiche uniche, con 5000 persone a sera, in quel teatro di pietra che, come diceva Platone, ha segnato non una democrazia ma una teatrocrazia. È un luogo cruciale per le nostre riflessioni. Cercare di incidere su questa attività. La mia impressione è che, nonostante nel tempo siano stati convocati attori o registi importanti, la sporadicità e l’aspetto un po’ casuale hanno fatto sì che non rimanesse un’identit precisa
Soltanto quella del luogo…
Appunto. La scommessa è riuscire a dare un segno preciso con quello che io preferisco chiamare un “festival”, piuttosto che “ciclo di rappresentazioni classiche” che rimanda a un’idea museografica, come se custodisse una tradizione che in effetti è un’invenzione che riguarda il mondo antico. Mi piacerebbe ripartire con la forza di uno sguardo contemporaneo capace di restituire a noi quelle storie. Pur nella sua marginalità, credo che quella forma di teatro, dove tutto è nato, possa ancora rappresentare una delle cerimonie più importanti. Riuscire a dare un’impronta più chiara di questo legame attraverso registi che abbiano uno sguardo molto preciso su queste questioni, secondo me è quello che possiamo fare. Ovviamente questo comporta anche la sfida di incontrare il pubblico, di non deluderlo. Scegliendo Le Rane, che è un testo raramente rappresentato, molto difficile, come fai a restituire gli asti che questa commedia faceva alla società e al potere di allora? Sono premesse che magari non tutto il pubblico conosce e dunque ci sembrava importante trovare un tramite forte. Per questo abbiamo affidato alla regia di Giorgio Barberio Corsetti il lavoro con due attori così marcati, importanti e popolari come Ficarra e Picone, che ci seguiranno in questa vicenda, partendo dalla loro carriera che li ha visti impegnati in una comicità d’altro tipo. Anche quella è una sfida.
Due binomi: tradizione e contemporaneità, teatro di ricerca e teatro popolare. Dove si situerà la prospettiva di rinnovamento? E dunque che cosa aspetta ai tre registi Marco Baliani, Valerio Binasco e Giorgio Barberio Corsetti?
Sia Marco Baliani che Valerio Binasco hanno una capacità di pulitura del testo che va oltre il recupero di un classico così come dovrebbe essere. Molte volte credo che sia stata quella l’idea che ha guidato le rappresentazioni a Siracusa, spettacoli “mattatoriali” costruiti su attori che declamano. Mentre in questo caso si tratta di scavare dentro una tragedia poco rappresentata come le Fenicie che dirigerà Binasco o all’interno di un’altra tragedia così importante del ciclo tebano come I sette contro Tebe diretta da Baliani e relazionarle in modo necessario con l’idea della guerra, della città ostaggio di un potere degenerato; temi questi che risuonano oggi e che non hanno bisogno né di un’enfasi retorica, né di una sottolineatura contemporanea giustapposta. Da questo punto di vista ricordo si accese un’aspra polemica quando Ronconi portò in scena Le Rane [nel 2002, ndr] appendendo davanti alla scena grandi e colorati dipinti raffiguranti Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e Gianfranco Fini: dei deputati di Forza Italia gli chiesero di toglierle. Rimase molto turbato e, confrontandomi con lui, credevo che lasciarli sarebbe potuta essere un’occasione per compiere, in quanto regista, un gesto di disturbo; poi lui pensò fosse più giusto lasciare la traccia vuota di quelle immagini, come segno di una censura che era avvenuta [rimandiamo all’intervista rilasciata a Franco Quadri sulla questione].
Tutto il dibattito che si svolse allora riportava alla luce una tragedia che ha un intento polemico e sociale molto acceso, una riflessione sul potere e sul ruolo del teatro rispetto al potere, venne fuori quasi una specie di saggio che vagliava tutti gli argomenti possibili intorno al buon uso dei classici rispetto a oggi. Un regista come Ronconi, che non era solito sottolineare l’attualità e anzi era distante da quel tipo di uso del teatro, dovendo maneggiare un materiale classico così riferito a una società, si poneva il problema di come rendere quella comicità nata da uno scontro di codici, tra potere e verità. Per questo ci vuole un tipo di regista, in questo caso Corsetti, che si faccia carico di comprendere che cosa significhi maneggiare un testo classico oggi, tanto nell’uso del linguaggio, quanto nel tipo di scelte.
D’altra parte è vero che quello spazio si nutre dello sguardo degli spettatori provenienti dalle scuole, di studenti e di insegnanti che proprio nelle rappresentazioni classiche vedono la messa in atto di uno dei loro oggetti di studio. Spesso tuttavia lo sguardo e le aspettative appaiono concentrate solo sulle questioni più eminentemente letterarie, e meno invece dedicate al teatro. È possibile preservare non solo il testo classico ma anche la sua specificità teatrale?
Questa è una domanda complicatissima, penso comunque che uno spettatore, anche se è un giovane studente, anche se ha uno sguardo viziato, “scolastico”, si arrenda all’evidenza e alla forza del teatro, nel momento in cui ha davanti uno spettacolo che non è un museo della tragedia greca ma è una testimonianza viva, una storia che per parlare di Eteocle e Polinice sviscera le ragioni, le pretese del potere. Dopodiché si può e si deve fare tutto un lavoro intorno, molto più lungo e complesso. Un’istituzione come questa lo può fare relativamente, quello che può fare è porre uno spettacolo in condizioni non inquinanti, che abbiano un rapporto chiaro e limpido col teatro con cui si relazionano. Sicuramente un’idea che si è radicata nel tempo sembra quasi inquadrare le rappresentazioni come una sorta di prêt-à-porter dell’antico, un po’ come quando si diceva che gli spettatori dell’Opera vogliono sempre lo stesso spettacolo. Ma anche nell’Opera ci sono spettatori che hanno molta più sensibilità nel rilevare differenze di regia o di interpretazione. Si tratta di creare una vera tradizione che abbia al centro il teatro e non un’idea del gusto teatrale.
Ciascuno degli spettacoli che si sono susseguiti a partire dal 1914 metteva e mette in moto tuttora un’équipe ricchissima, dagli artisti al coro fino alle maestranze tecniche. A volte sembra però che questa imponenza rimanga un appannaggio decorativo più che servire concretamente lo spettacolo, anzi quasi annullando la specificità di quel luogo.
Abbiamo citato Ronconi, passato alla storia come un regista molto “spendaccione”, per cui l’apparato scenico era di per sé un personaggio. In generale nel trattare quest’anno con i registi l’argomento della scena si è propensi a non sovrapporre, a non sovraccaricare, a utilizzare dei segni molto precisi ma senza macchinari complessi. A volte hanno avuto un preciso riscontro linguistico nella regia, sicuramente non sono più i tempi per spendere somme ingenti su ingombranti scenografie. Questo teatro rifletteva la misura della polis di una società che trovava in esso la sigla della propria identità, e le proporzioni di quel gioco prospettico sono esemplari e riguardano una struttura semplice dentro cui ci possono essere dei segni che devono essere usati con grande abilità.
Un’altra specifica degli agoni tragici entro cui si svolgevano le tragedie riguardava la costante novità, tratto che è stato ripreso nella scelta da parte dell’Inda di produrre ogni anno spettacoli nuovi che però, una volta concluso il ciclo delle rappresentazioni, venivano accantonati per poter pensare ai successivi. È vero che negli anni questa modalità ha visto delle eccezioni, e alcune opere hanno avuto una seppur minima circuitazione. Chiaramente bisogna considerare la specificità del luogo in cui questi spettacoli vengono creati, ma le chiedo se comunque non sia possibile aprirsi maggiormente ad altri luoghi all’aperto o al chiuso.
Per me è fondamentale. Noi vogliamo entrare in rapporto sia con altri luoghi all’aperto, teatri omologhi, sia in Grecia che in Italia, e sicuramente ci interessa anche rafforzare la possibilità che certi spettacoli possano avere un’altra vita, un’altra versione in palcoscenico. A volte ci sono regie che, soprattutto se premeditate fin dall’inizio come coproduzioni, hanno la capacità di adattarsi sia all’aperto che al chiuso. Durante la conferenza di presentazione che è avvenuta al Teatro Argentina, il direttore Antonio Calbi è intervenuto auspicando una collaborazione in questo senso. Già quest’anno faremo circuitare la Fedra di Carlo Cerciello [dello scorso ciclo, ndr] mentre I sette contro Tebe sarà la produzione che andrà in tournée per questa edizione. Non è ancora possibile permettere che tutti gli spettacoli viaggino, perché è uno sforzo che non potremmo permetterci, tuttavia il pensiero è di dare il massimo movimento a queste tragedie.
Qual è stata secondo lei la rappresentazione che più si è posta in una posizione di crisi feconda con la tradizione del teatro greco?
Sicuramente mi viene in mente il ciclo dell’Orestea fatta da Peter Stein come un punto di riferimento imprescindibile nella rappresentazione dei classici. Ricordo anche una regia di Mario Martone dei Persiani in cui il ruolo del corifeo era di Toni Servillo e lo ricordo come uno spettacolo molto bello, dove mi sembra che per la prima volta fu usato il microfono in quello spazio dove serpeggia tanta retorica rispetto l’uso della voce. Credo che fosse una regia che andava a contestare i luoghi comuni di una supposta tradizione e riusciva a dare una lettura dello spazio molto efficace.
E che disposizione ha l’Inda rispetto alle collaborazioni internazionali?
Quando fui direttore del Festival del Novecento per me fu molto importante instaurare legami e collaborazioni internazionali. La prima cosa da fare è ricreare uno spazio di rapporto con queste istituzioni, a partire anche dal convocare registi non soltanto italiani. Non abbiamo ancora creato le sinergie necessarie perché sono stato nominato soltanto una settimana fa!
Viviana Raciti
53° Ciclo di Rappresentazioni classiche, Teatro Greco di Siracusa
6 maggio – 9 luglio 2017
SETTE CONTRO TEBE di Eschilo
dal 6 maggio (in alternanza con le Fenicie)
Traduzione Giorgio Ieranò
Regia Marco Baliani
Assistente alla regia Raffaele Di Florio
Scene Carlo Sala
Assistente scenografo Roberta Monopoli
Costumi Carlo Sala
Musiche Mirto Baliani
Coreografie Alessandra Fazzino
Personaggi e interpreti
Eteocle Marco Foschi
Messaggero Aldo Ottobrino
araldo Aldo Ottobrino
Antigone Anna Della Rosa
Danzatori Massimo Frascà, Liber Dorizzi
Coro Accademia d’arte del dramma antico
FENICIE di Euripide
dal 7 maggio (in alternanza con I settecontro Tebe)
Traduzione Enrico Medda
Regia Valerio Binasco
Regista assistente Dario Aita
Scene Carlo Sala
Musiche Arturo Annechino
Costumi Carlo Sala
Light designer Pasquale Mari
Personaggi e interpreti
Giocasta Isa Danieli
Pedagogo Simone Luglio
Antigone Giordana Faggiano
Polinice Gianmaria Martini
Eteocle Guido Caprino
Creonte Michele Di Mauro
Tiresia Alarico Salaroli
Meneceo Matteo Francomano
araldo Simone Luglio
secondo araldo Massimo Cagnina
Edipo Hal Yamanuchi
prima corifea Simonetta Cartia
pianista Eugenia Tamburri
Coro Accademia d’arte del dramma antico
RANE di Aristofane
dal 29 giugno
Traduzione Olimpia Imperio
Regia Giorgio Barberio Corsetti
Regista assistente Fabio Condemi
Scene Massimo Troncanetti
Musiche SeiOttavi
Costumi Francesco Esposito
Marionette Einat Landais
Video Igor Renzetti
Light designer Marco Giusti
Personaggi e interpreti
Xantia Valentino Picone
Dioniso Salvo Ficarra
Eracle Roberto Salemi
un morto Dario Iubatti
Caronte Giovanni Prosperi
ostessa Francesca Ciocchetti
seconda ostessa Valeria Almerighi
Euripide Gabriele Benedetti
Eschilo Roberto Rustioni
Plutone Dario Iubatti
primo corifeo Gabriele Portoghese
il servo Dario Iubatti
Eaco Francesco Russo
Coro Accademia d’arte del dramma antico