Simone Cristicchi porta in scena la storia di David Lazzaretti, Il secondo figlio di Dio che racconta il Cristo dell’Amiata, visto al Teatro Vittoria di Roma. Recensione
Allora, ci sono le storie spirituali a carattere esemplare, se ne trovano con maggiore dovizia tra le pagine dei libri religiosi, spesso sotto forma di un ravvedimento, da un iniziale erranza morale, per accumulo di buon azioni che sappiano riaffermare insegnamenti dogmatizzati già in origine. Poi ci sono storie che non finiscono nei libri religiosi perché semplicemente fanno capo a vicende la cui esistenza pone un ontologico contrasto con quella ufficiale, o meglio, ufficializzata dal dogma. Il Secondo Figlio di Dio, scritto e interpretato da Simone Cristicchi per la regia di Antonio Calenda, e visto al Teatro Vittoria di Roma, narra proprio una di queste storie, forse una delle più potenti mai accadute, quella di David Lazzaretti che, nato nelle prime decadi dell’Ottocento tra le alture della bassa toscana, definì la propria vita dalle opere dedicate alla divinità che rendessero giustizia alla sopraggiunta vocazione, tali da farlo conoscere come “il Cristo dell’Amiata”.
Nato da famiglia popolare e divenuto barrocciaio, una volta preso moglie e dato alla luce un figlio, Lazzaretti inizia un percorso di assolutizzazione del sentire più intimo, verso una purificazione spirituale derivata dalle visioni che lo colgono al punto di svolta della propria vita. Il percorso è molto rapido e si manifesta con un’evidenza sorprendente, quasi ai limiti con la follia. Ma si tratta in realtà della forza d’animo dovuta alla propria origine, che lo sostiene in un proponimento cui non sembra sottrarsi, secondo un’evoluzione di acquisizione mistica capace di portarlo fino a ipotizzare un dialogo con il Papa, arginato dalle guardie di fronte alle porte di San Pietro. Ma non vorrà fermarsi, questo secondo messia, perché tra le sue visioni c’è un intendimento comune, quello che dispone ogni suo gesto in direzione dell’uomo e non di un dio; non esiste allora lo spirito come forma a sé stante ma in quanto animatore di un corpo dinamico, che da sé produce il proprio sostentamento. Lazzaretti è allora il Cristo degli uomini, la missione cui è chiamato non dovrà ridisegnare alcuna profezia ma ridistribuire poteri e ruoli nel contesto spirituale, fin troppo soverchiati dalla brama temporale della Chiesa del tempo.
Simone Cristicchi, barba lunga e abiti da popolano, definisce il personaggio con la lingua dell’entroterra toscano, saggiando la maturazione filosofica e morale di Lazzaretti in un contesto sempre contadino, fatto di stracci involtolati e un carro da trasporto dal quale non separarsi mai, che si trasforma ora in soglio papale ora in porta di accesso al Vaticano. La sua narrazione si arricchisce di una musicalità arcaica (in cui rintracciare l’eco de La buona novella di Fabrizio De André), alterna discorso diretto e indiretto e si affida a un narratore interno, sfrutta cioè buona parte delle proprie qualità secondo un indirizzo rappresentativo molto definito, che tuttavia non lo mettono del tutto al riparo dal rischio di farsi mera raffigurazione, piuttosto che teatro; ma è soprattutto nelle scelte sceniche del regista che lo spettacolo perde interesse e ricorre a un continuo andirivieni di noiosi gesti riempitivi, immaginando che spostare oggetti da un capo all’altro del palcoscenico per l’intera durata abbia risvolti estetici dignitosi.
Se nella legge le eccezioni si fanno regola e la giurisprudenza si fa codice, nelle religioni il diverso è di solito condotto di fronte al giudizio di eresia; nella storia di Lazzaretti c’è invece, pur non sopravvivendo a tale rischio, un desiderio immortale e sostenuto con una forza di volontà tutta umana, non certo con l’aiuto divino, che l’ha reso capace di fondare concretamente una società cristiana, finalmente redenta dalla corruzione e rispondente ai più veritieri insegnamenti evangelici. Cristicchi, cantautore celebre che da tempo sta trasportando in teatro la propria indagine espressiva, focalizza sull’esperienza umana più profonda il riferimento a un dio invece sempre meno presente nelle scelte dell’individuo. Nel viaggio del suo protagonista sembra proprio di scorgere questo suo sempre maggiore ingresso nel segreto della scena, come non ne possa fare a meno, come riconoscesse il cantautore di successo che propria dell’invisibile è l’arte del teatro, verso la quale tendere non è una scelta, ma vocazione.
Simone Nebbia
Visto al Teatro Vittoria, Roma – febbraio 2017
24 MAR Firenze Teatro Puccini
25 MAR Cavriglia (Ar) Teatro Comunale
26 MAR Livorno Teatro Goldoni
31 MAR – 2 APR Bologna Teatro Duse
IL SECONDO FIGLO DI DIO
di Simone Cristicchi-Manfredi Rutelli-Matteo Pelliti
Con Simone Cristicchi
Regia Antonio Calenda
Produzione CTB Centro Teatrale Bresciano/Promo Music/Mittelfest 2016