Pensare e fare teatro per l’infanzia e per le giovani generazioni è una sfida sul piano del linguaggio e della relazione. Qualche riflessione a partire da un incontro sull’Audience Development.
Questo articolo raccoglie e ordina alcuni appunti a partire da un intervento commissionato dall’Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia-Giulia (ERT FVG) nel contesto della giornata Audience Development. Obiettivi, strategie, filosofie (Teatro Nuovo Giovanni da Udine, 21 gennaio 2017)
«I bambini non pensano all’arte quando guardano l’arte, ma la accolgono come una parte naturale della vita. E allo stesso modo sono abituati a giocare e a usare la logica del gioco anche quando guardano il teatro o la danza».
Jacques Copeau è stato di certo tra gli innovatori delle avanguardie storiche più attenti al tema dell’educazione teatrale. La sua utopia di attivare, al Théâtre du Vieux Colombier, una scuola in grado di formare attori fin dalla tenera età è rimasta, appunto, un’utopia. Ma i suoi quaderni sono pieni di intuizioni e di ragionamenti su ciò che significa l’esperienza teatrale per l’infanzia.
La gran parte di coloro che si occupano di teatro senza “fare il teatro” è molto probabilmente passata attraverso un’esperienza pratica, che è il vero motore di tutto. La pratica è l’artigianato del sapere, la fucina che forgia gli strumenti minimi necessari per qualsiasi analisi si voglia poi condurre.
Forse è proprio il concetto di pratica ad aver bisogno di essere ristrutturato oggi, nelle arti e nel teatro in particolare, ma più in generale nei processi di comunicazione.
Oggi, la tecnologia (intesa nel senso più lato possibile, come estensione delle facoltà corporee) ci sta giocando un tiro mancino: la vertiginosa vicinanza che abbiamo con tutti i dispositivi di lettura della realtà ci dà l’impressione di avere un totale controllo di noi e dell’ambiente che abitiamo, quando invece quegli stessi dispositivi che sembrano avvicinare, in verità allontanano. Somigliano a noi o noi somigliamo a loro? Quasi ogni atto “pratico” ha sempre – prima – un’interlocuzione tecnologica.
Lev Vygotskij, psicologo sovietico responsabile di importanti studi nel campo dell’educazione, diceva: «La nostra sensibilità, il nostro linguaggio e le nostre prestazioni cognitive vengono riplasmate dagli assetti tecnici dentro cui facciamo esperienza».
Se l’obiettivo di chi pensa il teatro per le giovani generazioni è quello di sviluppare un pubblico e magari alfabetizzarlo, occorre innanzitutto capire come funzioni un sistema di segni complesso come quello delle arti performative. Per poi magari imparare a replicarlo nel momento in cui si provi ad avvicinare altri alla stessa esperienza.
Qualsiasi lavoro di formazione dello sguardo, anche una semplice analisi dello spettacolo richiede sempre una sorta di meta-passaggio: afferrare alcuni segni in modo che diventino strumenti per interpretare e comprendere non tanto un significato, quanto il sistema che contiene e che organizza quei segni.
In un mondo organizzato per ambienti mediali sempre più governati dal dualismo hardware/software, le arti sceniche restano quasi l’unico ambiente mediale in cui la struttura delle relazioni ha modo di cadere e di frantumarsi ogni volta, uno dei pochi spazi di libertà in cui può ricostruirsi incessantemente una relazione. Perché lì ogni processo si svolge (e dunque si rende visibile) in presenza; non esiste di fatto alcuna possibilità di ingabbiarlo dentro a schemi di comunicazione prestabiliti. Ancora più importante, la relazione del teatro è essenzialmente una relazione di comunità.
Nell’ottica di un teatro “pensato” per i più giovani, occorre allora immaginare la qualità della relazione che ciascuno spettatore deve essere guidato a istituire con il teatro in quanto sistema di linguaggio che ha la relazione come principio vitale. Da quel sistema vitale si può forse imparare, per poi trasmetterlo.
Come si diceva in un altro articolo, in questi anni si stanno moltiplicando le realtà che lavorano su e con lo spettatore. Nessuna o quasi di queste sta realmente tentando di “insegnare”, ma cerca strategie per sviluppare collettivamente il modello teatrale in una dimensione di accompagnamento, di guida, di orientamento, di discussione critica, soprattutto, piuttosto che di lezione frontale. Il processo di trasferimento dell’esperienza allaccia un processo di trasmissione di pratiche di visione.
Nell’avvicinare l’infanzia al teatro, una strada può essere quella di imparare dagli schemi di relazione messi a punto nella fase di creazione, per cercare di ricavarne gli strumenti per una trasmissione dell’esperienza. Una trasmissione che, come deve esserlo l’artista in fase di creazione, sia consapevole del target di riferimento e delle sue potenzialità, molto più che delle sue limitazioni. Non semplificare o sintetizzare discorsi per renderli comprensibili, piuttosto entrare in una reale stanza della condivisione in cui l’esperienza teatrale assuma per tutti, artisti e formatori compresi, lo stesso livello di rilevanza rispetto a quello che è un vissuto comune. Perché, più che ogni altra arte, il teatro nella sua eminente dimensione relazionale parla di comunicazione, di calore umano, di “stare” e di “crescere”, tutte forme alla base di una qualsiasi organizzazione vitale. E soprattutto nei bambini diventa allora fondamentale istituire l’esperienza teatrale non tanto come evento a cui partecipare, ma come mondo da creare, in qualità di spettatori, ma soprattutto di osservatori pensanti, di collaboratori.
Come notava Gerardo Guccini in un incontro sul teatro ragazzi a Castelfiorentino, esistono nella comunicazione due modelli che agiscono in senso parallelo: quello comunicativo – un messaggio che si trasferisce direttamente da un mittente informato a un destinatario non informato – e quello relazionale, in cui l’interazione tra emittente e destinatario è in grado di influenzare il messaggio, di cambiare l’oggetto della comunicazione.
E questa dinamica, svolta in presenza, è determinante nel fatto teatrale, di cui non si può avere il controllo totale. Se molti passaggi attraversati nella fruizione di uno spettacolo conservano una matrice empatica, non razionale, comunque non schematica, seguendo la stessa logica la creazione per l’infanzia deve essere pensata, per affrontare lo spettatore ad armi pari. Anche, perché no, in un lavoro di visione e ragionamento sullo spettacolo condotto insieme agli spettatori bambini.
Copeau avrebbe parlato di un gioco serio, in cui si può mettere dentro tutto, dall’interpretazione di un movimento fino – sarebbe affascinante – alla visione “politica” di uno spettacolo.
L’atto di portare a teatro i bambini non è sufficiente, abbiamo anche avuto di recente dimostrazione della sua attaccabilità. Potremmo allora immaginare dei percorsi di formazione dello sguardo per spettatori bambini, ma dovremmo innanzitutto esorcizzare la virtualità pervasiva dell’ambiente mediale in cui viviamo quotidianamente, in una maniera ancor più radicale. Avremmo di certo bisogno di una figura guida, una che possa allontanare la frontalità e incarnare un’esperienza condivisa, riorganizzata a partire dalla relazione triangolare tra formatore, partecipante e opera; dalla discussione critica, dall’ascolto.
La vera chiave d’accesso è quella che riscopre l’essenzialità del teatro, che impara dalla sua natura relazionale, anche e soprattutto in un percorso di formazione. Ancora più che ascoltare il commento di uno, diventa allora importante osservare le reazioni degli altri: uno annuisce, l’altro scuote la testa, questo sorride, quello è distratto e sfoglia con un dito il telefono. Ed ecco che si compone un quadro non solo della prospettiva di un individuo, ma del suo effetto su tutti gli altri, fotografato nel momento della condivisione, della relazione.
Recuperando queste reti materiali, fisiche, fondate sulla prossimità, si può riconvocare l’elemento umano dentro una cornice di ragionamento “organico”. Per negoziare un contatto con l’infanzia si deve per forza di cose abbandonare l’idea (frontale anch’essa) che la fruizione del teatro e il suo relativo ragionamento siano qualcosa di puramente intellettuale: posseggono invece una forte componente di carnalità, di materialità. Sono pratiche di relazione, devono restare tali; la compresenza che dà al teatro la veste di atto comunitario è primaria tanto nella fruizione quanto nel ragionamento. Soprattutto quando l’intenzione è quella di pensare il proprio sguardo o, nella condivisione, di confrontarlo con quello di un altro. Si tratta di porsi in discussione critica con l’opera, con se stessi e con gli altri. In questo modo, ad avvicinarsi al teatro non è solo un giovanissimo individuo, ma la sua capacità di pensarsi spettatore.
Sergio Lo Gatto