In occasione della riproposizione di Come un cane senza padrone al Teatro Biblioteca Quarticciolo, abbiamo parlato con Daniela Nicolò di questi venticinque anni di Motus. Intervista
Forse è così, che ogni artista compia un viaggio con l’inizio certo della partenza ma senza una meta ascrivibile a una fine; in uno stato di movimento perenne e cangiante, stimolato dal tempo che passa, l’esperienza che muta e gli incontri che implicano deviazioni inattese. Motus (compagnia fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò) che da poco ha festeggiato i suoi venticinque anni, ha scelto il viaggio come strumento di attraversamento e osservazione del reale, plasmandone la natura tramite la letteratura, il teatro, la performing art e servendosi, ultimamente, anche del potenziale comunicativo dei social. Come un cane senza padrone, riproposizione dello storico reading facente parte del repertorio della compagnia e ora in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo, parte proprio dall’abitudine che Pier Paolo Pasolini aveva di conoscere Roma passeggiando per le strade di notte «sempre in cerca, sempre in attesa, perché sempre gli mancava qualcosa, egli cercava – ma nel mondo, fra i corpi – la solitudine più assoluta».
Dall’altra parte del telefono, la rotellina dell’accendino gira rapidamente, il calore della fiamma si accende, aspira: Daniela Nicolò è a casa, ancora per poco però, perché già in partenza per l’Australia: «a volte mi capita di sentire che stiamo perdendo il contatto con l’Italia, ho come la sensazione di allentare dei legami e allora penso quasi di aver bisogno di una stanzialità…».
La dimensione del viaggio – che ritroviamo direttamente connessa a Come un cane senza padrone – è sempre stata per voi indispensabile e lo è ancora di più oggi, quando il racconto diventa diario di bordo attraverso i social. Penso all’utilizzo che fate di Instagram: la foto postata non è mai fine a se stessa, travalica anche la didascalia, è inserita in un percorso, dice di un mondo e ce lo fa scoprire attraverso il vostro sguardo…
Il viaggio ha sempre rappresentato la nostra dimensione. Lo è stato fin da quando eravamo a Rimini negli anni Novanta, anche se questo era un periodo ancora caratterizzato dalla stanzialità. Negli anni Duemila abbiamo poi mutato il nostro modo di lavorare verso il nomadismo con il progetto Rooms costruito attorno al tema della stanza d’albergo e ispirato alla letteratura americana, con particolare riferimento a Bret Easton Ellis. Con Pasolini invece si è proprio accesa una scintilla e abbiamo iniziato a fare veri e propri viaggi di ricerca per spingerci ai margini delle città, nelle periferie. In Come un cane senza padrone ci muovevamo in camper, ripercorrendo con telecamera alla mano le strade battute dall’autore trenta anni prima. Da questo progetto intorno a Pasolini in poi, non abbiamo più avuto un luogo stabile di ricerca. Volevamo uscire dalle quattro mura del teatro per riportare il viaggio sulla scena e mutare gli spazi servendoci per esempio di scenografie dinamiche come in Alexis. Una tragedia greca e in Caliban Cannibal (nel primo la scenografia è attraversata da frammenti di interviste, dialoghi, video, immagini, tutto materiale raccolto per strada nella città di Exarchia; nel secondo lavoro invece gli attori entrano e escono da una light emergency tent, quell’«eterotopia mobile, modo di essere nel paesaggio artistico» ndr). Siamo in viaggio, (ora ad Adelaide, prima a Berlino, Bruxelles, Tanzania, Tokyo, Parigi ndr) pur rimanendo molto affezionati a luoghi come Santarcangelo e L’Arboreto Dimora di Mondaino dove torniamo spesso per lavorare.
I viaggi hanno inciso profondamente sulla vostra identità: fluida, mutevole, multipla. A distanza di venticinque anni e facendo riferimento proprio al progetto Hello Stranger, qual è il confine tra percepirvi stranieri e mantenere tuttavia una natura stilistica e autoriale riconoscibile?
Tradiamo noi stessi. Mescoliamo linguaggi, mettiamo in crisi le tendenze in contatto costante con il contemporaneo, con il qui e ora. Vogliamo sempre ripartire da zero, alla ricerca di forme sceniche mai rappresentate, nell’orizzonte della difficoltà e del rischio. Hello Stranger infatti è un racconto fatto attraverso nuclei tematici, senza seguire una precisa cronologia, o ancor di più, una teatrografia. Abbiamo scelto una drammaturgia fotografica fatta di istantanee, per ripercorrere un viaggio soggetto a ri- traduzioni e ri- scritture. Sempre nella diversità, manteniamo tuttavia una natura ricorrente e per questo riconoscibile.
Vi ponete costantemente in dialogo con la letteratura: Eugenides, Preciado, Genet, Shakespeare, Pasolini… solo per citare un numero esiguo di autori coi quali entrate in contatto. Qual è l’urgenza attualizzante che vi guida nella scelta?
La diretta connessione con la vita, in particolar modo Genet e poi anche Fassbinder e Pasolini, non rintracciabile soltanto nella forma romanzo o testo teatrale ma anche nel linguaggio cinematografico. Il binomio privilegiato è quello che lega la vita all’arte e alla diversità. Shakespeare ne La Tempesta comunica necessariamente con Aimé Césaire per poter affrontare il tema dei numerosi sbarchi, del naufragio e dell’approdo all’isola. Temi politici che diventano per noi degli appigli affinché possiamo complicare la scrittura e metterla in crisi. Middlesex di Eugenides ci è rimasto nel cuore, e da questo testo abbiamo rielaborato quasi un manifesto; il che potrebbe sembrare una forzatura narrativa ma in realtà costituisce una drammaturgia stratificata in cui il punto di vista è, brechtianamente parlando, quello dell’attore, della sua presenza scenica e politica.
Silvia Calderoni: performer e “corpo” di Motus, nell’accezione di una fisicità attoriale distintiva. Un unicum forse rispetto alle altre compagnie. Dove inizia la costruzione personale di Silvia e come si inserisce la vostra idea di attore e quindi il vostro modo di lavorare con lei?
Silvia incarna quell’idea di attore che abbiamo sempre cercato, miriamo a una verità e lei è in grado di tradurla e farla corpo. Fin dall’inizio il suo è stato un corpo muto come in X (ICS) e Rumore Rosa; la sua era una timidezza che non riusciva a vincere la parola ed è cresciuta in seguito, si è poi evoluta nel lavoro sul personaggio di Antigone. Non vogliamo gerarchie (regista – attore), il nostro è un lavoro di condivisione che ha saputo confrontarsi nel corso di questi anni con un attore privilegiato col quale creare una triangolazione di scambio reciproco. Una ricerca mutuale dunque, nutrita dagli stimoli che Silvia riesce a tradurre e a trasformare e che poi noi organizziamo insieme in un processo continuo di dialogo.
Animali Politici, per citare un altro dei vostri progetti risalente al 2011. Secondo voi esistono ancora spazi, intesi come dimensioni autonome, in cui poter attuare l’agire politico?
Proprio in questi giorni sto leggendo l’ultimo libro di Judith Butler, L’alleanza dei corpi, e credo che lo spazio pubblico sia la risposta; la sua occupazione, l’assenza o presenza di un dibattito. Anche il nostro progetto futuro si muoverà in questa direzione. Sarà molto importante e credo fortemente nella mobilitazione mondiale nella giornata dell’otto marzo (l’intervista è stata fatta precedentemente ndr) come momento di rivendicazione femminista e transfemminista. Il teatro è un luogo politico certo, ma non lo è di per sé, bisogna renderlo luogo politico: spazio di riflessione e di coraggio nel quale veicolare un’idea. Noi ci occupiamo di temi sensibili al dibattito pubblico e cerchiamo di portare avanti il nostro attivismo politico rompendo le convenzioni e creando un cortocircuito.
A proposito di Gender Trouble – sempre per tornare a Butler – e di sensibilità rispetto a tematiche urgenti, cosa ne pensate della polemica censoria relativa allo spettacolo Fa’afafine di Giuliano Scarpinato?
Purtroppo essendo fuori dall’Italia non abbiamo potuto vedere lo spettacolo ma abbiamo seguito con interesse cosa stesse accadendo attorno. Posso però parlare dell’esperienza avuta con MDLSX. Noi siamo stati invitati dai professori di un liceo a Lubiana, da uno in Belgio e grazie al Teatro Massimo di Cagliari abbiamo organizzato una visione con dei ragazzi del Liceo classico, linguistico e delle scienze umane Motzo di Quartu Sant’Elena. Sono stati gli stessi professori a educare gli alunni e a prepararli allo spettacolo. Vero è che non sono bambini, ma comunque sono adolescenti che si trovano in un’età piuttosto delicata e complicata in cui la pubertà e maturazione sessuale gioca un ruolo fondamentale nella percezione o non percezione di se stessi. I professori ci hanno fatto notare che non avevano mai visto gli studenti così attenti. Non è stata un’esperienza importante solo per i ragazzi: MDLSX si è arricchito ulteriormente, Silvia stessa ha recepito uno “stare” diverso da parte di questo pubblico e ci siamo emozionati perché tra i ragazzi c’era uno che stava attraversando una fase di transizione e quindi si è sentito ascoltato, compreso e, soprattutto, non si è sentito solo. Uno degli interventi post-spettacolo più significativi e rimastoci impresso è: «non pensavamo si potesse fare teatro in questo modo e che si potessero dire certe cose».
Lucia Medri