Massimiliano Civica ha debuttato al Teatro Metastasio di Prato con un nuovo spettacolo, scritto da Armando Pirozzi, interpretato da Alberto Astorri e Luca Zacchini. Recensione
Un quaderno per l’inverno, presentato in prima assoluta al Teatro Fabbricone di Prato, sembra opporsi – almeno a un primo sguardo – a qualsiasi interpretazione che ne faccia uno specchio di teorie filosofiche o di riflessioni sullo “stato delle cose” nel mondo delle arti. In una vertiginosa coincidenza di forma e sostanza, il nuovo esito del sodalizio artistico tra Massimiliano Civica e Armando Pirozzi è in prima istanza soltanto un lungo colloquio tra due anime, narrato attraverso una cifra minimale e coltissima, il risultato di un meccanismo di scarnificazione che sembra aver esposto allo sguardo del pubblico un nucleo di umanità pura, scevra da qualsiasi sovrastruttura. E tuttavia, in uno degli scambi conclusivi della pièce, Velonà interroga Nino sulle implicazioni di uno specifico rapporto tra realtà e segno: «Il problema di fare i simboli con la vita vera è che cambiano continuamente i significati, i simboli, e quindi, cosa resta?». Professore di letteratura con velleità poetiche, Velonà sembra aver compreso il pericolo fatale nel quale incorre chi, come lui, ha confuso la realtà con l’arte, al punto da credere che il mondo possa mutare grazie a qualche verso ben scritto, e che le esistenze individuali, le loro miserie e i loro splendori, possano significare qualcosa di più e di diverso da se stesse.
Eppure la speranza che all’imperativo estetico anche il corso delle stagioni possa piegarsi, e l’illusione che la natura sia effetto e conseguenza della rappresentazione che di essa si dà, costituiscono un’attrattiva di magnetica forza: nonostante le cocenti delusioni, è anche per questa insana convinzione che il teatro, in precario equilibrio tra trionfo e oblio, continua a esistere e a resistere. Forse è proprio grazie al teatro che un mondo, quale esso sia, si dà: come sosteneva Nelson Goodman ne I linguaggi dell’arte «che la natura imiti l’arte è una massima troppo prudente. La natura è un prodotto dell’arte e del discorso».
Un quaderno per l’inverno è la risultante di una sottrazione che provoca lo spettatore a individuare nell’impalpabile tessuto drammaturgico e registico i nodi relativi ad altissime questioni estetiche, sfidandolo a districarne alcuni secondo la propria sensibilità: un processo di decodificazione inficiato però dalla stessa incongruenza logica di cui è vittima Velonà, e che rischia di risolversi in un mero gioco critico di attribuzione di simbologie a realtà sfuggenti, intrinsecamente neutre. L’ostentata semplicità dello spazio scenico e del disegno luci, la compressione del testo così come il lavoro attorale denotano una cura microscopica per il particolare che trasforma lo spettacolo nella miniatura di un interno familiare, all’interno della quale il minuscolo dettaglio sembra affacciarsi, in un’ipnotica mise en abyme, su galassie di sensi inattesi.
La surreale vicenda che Armando Pirozzi ha tratteggiato in tre brevi scene si dipana lungo gli otto anni che separano i fulminanti incontri tra un un ladro gentile e dolente, Nino, e un docente universitario amareggiato e solo, Velonà: intrufolatosi nell’appartamento del professore, Nino spera di estorcergli non denaro ma poesie, convinto che soltanto esse possano risvegliare dal coma sua moglie, Anita. Arte, eros e thanatos disegnano nell’esile trama i contorni di una riscrittura post-moderna del mito di Orfeo ed Euridice, dove il vate non è in più grado di comporre versi ed è costretto a rivolgersi a un Cyrano de Bergerac disilluso. La scrittura del drammaturgo napoletano filtra i riferimenti ai tòpoi fondativi della cultura occidentale attraverso il setaccio di una lingua piana e colloquiale, appannaggio di due individui al contempo comuni e archetipici. Velonà è in questo senso l’autore per eccellenza: logorato da una quotidianità grigia, egli trova nella caparbia certezza di Nino una testimonianza tangibile di quegli ideali che stancamente insegna a studenti altrettanto svogliati. È un autore che crea sulla scena il ladro gentile, un regista che proietta, nello spazio intimo e mentale della propria abitazione, l’incarnazione del desiderio mitopoietico di attribuire alla poesia infinite possibilità salvifiche: Nino è forse soltanto un incubo, uno di quei «maledetti incubi» che, confessa Velonà, lo affliggono «ogni secondo della sua vita».
La regia di Massimiliano Civica riesce nel compito di far emergere questa infinita ricchezza di temi grazie al consueto, glaciale azzeramento del segno: è un dispositivo di chirurgica precisione che mira ad asciugare la scena e la recitazione, così da rivelare quel sedimento di suggestioni che affiorano, trasparenti, sul fondo dell’intreccio. In uno spazio asettico e privo di quinte, attorno a un tavolo bianco e a due sedie rosse, Alberto Astorri e Luca Zacchini agiscono la scena con cerebrale rigore, inquadrati da uno statico rettangolo di luce: il loro è un dire privo di intonazioni superflue, un consegnare all’ascoltatore il testo con toni quasi irreali e paradossalmente efficaci. Se Luca Zacchini è un Nino sognante, forse fin troppo incolore in alcuni passaggi, Alberto Astorri costruisce con maestria Velonà, consegnandoci un prodigioso esempio di calibratura vocale, dove al di sotto dei toni disincantati si intravedono le sfumature sanguigne della rabbia, della passione, del ricordo. E la direzione di Civica –che nelle note di regia auspica di «sottrarsi e nascondersi» per «portare ancora di più in primo piano (…) il rapporto tra esseri umani nel qui e ora del rito teatrale» – traspare nell’interazione spaziale tra gli attori e tra gli attori e gli oggetti di scena, nel sornione distacco con cui fa pronunciare le didascalie che introducono le scene, nella folgorante sequenza in cui Zacchini sopperisce all’assenza di scenografie mimando con il movimento delle braccia l’aprirsi di una porta.
La poesia di Velonà non salva Anita: Nino non ha avuto il tempo di leggerla alla donna amata, più per un’oggettiva metamorfosi del tempo stesso che per un qualsivoglia ritardo. È il tempo a essere fuggito, il tempo nel quale era ancora possibile fronteggiare la progressiva perdita di senso dell’arte, prima che subentrasse un presente dilatato in cui «le parole in fila non servono a niente». Drammaticamente illusoria, la poesia si rivela essere ontologicamente inabile a incidere nel corso degli eventi, siano essi quelli pubblici della Storia o quelli delle tante storie private: eppure essa sembra rispondere a un bisogno sotterraneo e perenne, indifferente alle amarezze di Orfeo e dei suoi epigoni. Una poesia raccoglie attorno al tavolo, ancora una volta, il professore e il ladro, otto anni dopo la morte di Anita: quei pochi versi ingenui e dilettanteschi vincolano Velonà e Nino a condividere una quotidianità improbabile ma tenace, li spronano a irridere i loro bizzarri destini. L’ostinato gesto che trasferisce parole e sogni sulla carta non gode di straordinarie virtù taumaturgiche: e tuttavia è per esso, e per il suo farsi mondo, che si incontrano il furfante e il letterato, lo spettatore e l’attore.
Alessandro Iachino
visto al Teatro Fabbricone, Prato – marzo 2017
UN QUADERNO PER L’INVERNO
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Alberto Astorri e Luca Zacchini
costumi Daniela Salernitano
scene Luca Baldini
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Armunia Centro di Residenze Artistiche Castiglioncello