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Margine Operativo. Roma Al palo della morte

Dopo il debutto ad Attraversamenti Multipli, Al palo della morte di Margine Operativo arriva al Teatro Argot Studio. Recensione

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

“Io esco mo’! Ci vediamo là al palo della morte, al solito posto. Sbrigate!”. Sottofondo di cicale, calura estiva, tutto intorno tace. Qui nel 1980 in via Conti zona Vigne Nuove, Carlo Verdone – all’epoca regista esordiente in Un sacco bello – nei panni del coatto Enzo dava appuntamento all’amico Sergio, ansioso e poco convinto di partire per il viaggio di Ferragosto a Cracovia. Una scena ormai mitica e popolarmente poetica: l’appuntamento nella no man’s land romana, in un luogo remoto e non indicato, fuori dal centro urbano, per esprimere quel prolungamento sconosciuto della città. “Torpigna”, abbreviazione del quartiere di Tor Pignattara alla periferia sud est della capitale, è proprio questa terra di confine, lontana dal centro e appendice di un territorio esteso all’estremità, e nei suoi estremismi. Ispirandosi liberamente al libro di Giuliano Santoro Al palo della morte Storia di un omicidio in una periferia meticcia – pubblicato da Alegre nel 2015 – casa editrice già nota per la sua “attualità teatrale”Alessandra Ferraro e Pako Graziani, insieme agli attori Tiziano Panici e Aleksandros Memetaj, ricostruiscono nello spettacolo Al palo della morte l’episodio di cronaca nera riguardante la morte di Shahzad, ventottenne pakistano ucciso da un giovane romano poco più che adolescente, in un pomeriggio di metà settembre del 2014 in via Ludovico Pavoni. Proprio lì a Torpigna.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Dopo il debutto al Centrale Preneste durante il festival Attraversamenti Multipli nello scorso mese di settembre, il lavoro prodotto da Margine Operativo arriva nello spazio del Teatro Argot Studio. La scena è quella dove si ricostruisce un crimine, o più crimini: un lungo tavolo ricoperto di foto e documenti, una bacheca di metallo sul lato sinistro, un microfono. Due “narratori” – o come li chiamerebbe Brecht per spiegare la recitazione straniata – “due che raccontano di un incidente”, manipolano scartoffie, foto segnaletiche, ritagli di giornale. Li guardano, li studiano e li scelgono, per ricomporre il puzzle di una vicenda che sembra configurarsi come l’inevitabile conseguenza di un sistema mondo che soffre la paura dell’Altro, tanto socialmente che urbanisticamente (l’Altro vive nascosto nei palazzoni distanti dal centro). L’omicidio del ragazzo è, pur nella sua gravità, soltanto una delle fonti, sia di recente cronaca nera che storica, interrogate durante i circa cinquanta minuti dello spettacolo: dal pestaggio alla violenza sessuale ai danni di una tassista, e poi la migrazione degli anni Novanta, la gentrification del Pigneto, i presidi a difesa del “pischelletto” e quelli dei migranti… Ad interessare Pako Graziani è l’esacerbazione razzista  come evento che fa detonare una situazione ormai fuori controllo, rivelatrice tuttavia di ben altre contraddizioni stratificate nel corso degli anni e confluite in una drammaturgia che, partendo dal “microcosmo” del quartiere romano, ci racconta delle “periferie mondo”, intese non come spazi fuori dal nucleo metropolitano ma come realtà sociali di confine perché sempre in procinto di mutare, innervate dai flussi migratori.

Panici e Memetaj sono rappresentazione scenica di Tor Pignattara: il primo romano, l’altro albanese giunto in Italia nel 1991, l’anno della prima ondata di massa di migranti nella zona della Marranella. La loro è una «presenza coerente»: così è definita da Graziani che, dopo aver letto il libro di Santoro, ha deciso di darvi forma scenica scegliendo, prima che degli attori, delle persone a sé vicine, amici dei quali conosce le idee e condivide progetti, sapendo che sarebbero state in grado di dare corpo a una problematica attuale. Con loro il regista ha poi lavorato sulla sottrazione interpretativa, sul contenimento dell’emozione e del pathos, quell’«ancora meno» funzionale ad allontanare il rischio di una restituzione compassionevole. «Mi sembrava all’inizio di non dover fare nulla, dovevo stare in scena, “semplicemente”» ci racconta Memetaj durante l’incontro post spettacolo; sono i fatti, e soprattutto la loro contingenza, a dare senso al dispiegarsi del lavoro attoriale. Entrambi con indosso i pantaloni della tuta e una felpa con cappuccio, a coprire la testa solo in alcuni momenti, i due attori raccontano i fatti e gli urlano contro. Specialmente nel momento della rappresentazione del pestaggio di Shahzad, quello visto da Fiorenza e Ruggero (nomi finzionali dei testimoni), la cui difficoltà sta tutta nel dare atto della morte, e a complicare la resa, questa volta teatrale, è la presenza in sala proprio di colei che ha dato l’allarme. In questi casi, tornando alla coerenza di cui parlavamo sopra, la responsabilità umana e di ascolto anticipa di gran lunga la prova d’attore, e la rende necessaria.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Dopo Partizan Let’s go e Presunta morte naturale, Margine Operativo torna a occuparsi dell’urgenza, motore di questo presente, parlando di uno spaccato noto e complesso della romanità, funzionale a una riflessione scenica che dalla periferia interroga il centro. Sia Alessandra Ferraro che Pako Graziani non sono di Roma ma vivono e abitano a Tor Pignattara ormai da molti anni; la loro vicinanza alle tematiche affrontate nel testo di Santoro passa attraverso i figli, i cui compagni di scuola sono marocchini, indiani, bengalesi, romeni; l’andare a fare la spesa, vivere in un condominio multietnico, il partecipare alle manifestazioni della comunità migrante. La quotidiana familiarità precede e sostanzia il processo creativo e di selezione dei materiali, sospinge il dibattito a piccole dosi nell’andamento drammaturgico e restituisce così l’essenzialità del reale.

Lucia Medri

Teatro Argot Studio – marzo, 2017

AL PALO DELLA MORTE
liberamente tratto dal libro
“Al Palo della morte – storia di un omicidio in una periferia meticcia”
di Giuliano Santoro (ed. Alegre 2016)

ideazione
Alessandra Ferraro e Pako Graziani

drammaturgia e regia
Pako Graziani

con
Tiziano Panici e Aleksandros Memetaj

sound designer
Dario Salvagnini

light designer
Valerio Maggi

produzione
Margine Operativo

in collaborazione con
Kollatino Underground, Argot Studio, Attraversamenti Multipli

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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