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La fiaba di Fabrizio Arcuri: fame, riso, morte e frenesia

Le due riscritture di Joël Pommerat con la regia di Fabrizio Arcuri hanno debuttato al Teatro San Giorgio di Udine per una produzione del Css Teatro Stabile di innovazione del FVG con la collaborazione dell’Accademia degli Artefatti. Recensione

 

foto di Giovanni Chiarot
foto di Giovanni Chiarot

Lo spettacolo è una fessura, intorno alla quale si esercita la ricerca tra chi gli spettacoli li fa e chi dall’altra parte li vede, un luogo d’incontro, di equivoci e di miraggi. Ancor più quando il terreno è la fiaba, quel racconto conosciuto e masticato da molti, che riposa nello scritto e riacquista il suo originario carattere di oralità proprio nella messinscena, liberata dal peso marmoreo delle sole parole. Da piccoli ci hanno insegnato a ricercare la morale di ogni fiaba, divertirci con l’intreccio ma reclamare una lezione dopo lo scioglimento. Miraggi sì… ma bando all’ambiguità.

Joël Pommerat è un autore tra i più conosciuti oggi in Francia, ha riscritto le fiabe di Cenerentola e Pinocchio negandone l’aspetto didascalico e instillandoci il sospetto che l’intreccio possa essere solo pretesto per spingere chi guarda all’equivoco. Fabrizio Arcuri pensando la regia ha fatto di questo equivoco un buon gioco, e ha costretto il caro Pinocchio e la bella Cenerentola a essere altrove, in altre fiabe e diverse storie.

Pommerat parte dal racconto popolare, reso celebre dalle versioni di Perrault e dei fratelli Grimm, per piegare Cenerentola a una riflessione sul nostro rapporto con la vita e la morte, la giovinezza e la vecchiaia.
Qui troneggia il dramma della matrigna che non si rassegna al passare degli anni, e in questo gioco sadico coinvolge le due figlie che vorrebbe piuttosto somigliassero a sorelle; esibisce il rito del maquillage e quello più invasivo della chirurgia plastica per presentarsi in gran forma alla festa del re e provare a sedurre il principe, che potrebbe esserle figlio. L’impianto scenico è semplice, fatto di scatole di legno bianco che gli attori muovono a vista sul palco, dentro cui si nascondono e trovano rifugio i nostri personaggi. Sono tane per piccoli animali in gabbia o trampolini, ma per saltare a vuoto. Sullo sfondo brilla una tenda dai risvolti cangianti, un po’ glamour, forse eccentrica, ci ricorda che la vita è prima di tutto uno show. E in questa spettacolarizzazione regna la matrigna che Rita Maffei rende impietosa e smaccata, l’unica che però riesce alla fine a far commuovere.

foto di Giovanni Chiarot
foto di Giovanni Chiarot

Sandra, la nostra Cenerentola, è una ragazza che non accetta la morte della madre; appeso al collo porta con sé un grande orologio rosa che trilla ogni cinque minuti: è il monito per far sì che la memoria non avvizzisca e il ricordo riesca a tenerla ancora in vita. Il padre prova a essere felice, lo fa a spese di sua figlia, accettando la relazione con una donna dalla quale però è più comodo nascondersi. È il dramma di un inetto aracnofobico che fuma sigarette nella stanza di Sandra (detta anche Cenerella), le sputa addosso fumo e insoddisfazione e poi fugge via alla ricerca di una presunta felicità.
A fumare è anche la fata, personaggio grottesco dalle dubbie doti magiche, maldestra e disordinata aiuta una Cenerentola che riesce però benissimo a farcela da sola. Di fatto in conclusione Sandra ha la lucidità di farsi regalare la scarpa del principe (ribaltando i ruoli classici della fiaba), lo conduce con sé, si assicura un buon futuro e consegna al passato il dramma del lutto.
La matrigna ormai esausta, nel finale batte insistentemente il pugno sulle pareti di quella casa di vetro, che invece ora è legno duro; uno due, tre, quattro minuti e più; al suo fianco le due figlie, hanno uno sguardo consapevole, non più divertito o feroce. Tre donne per cui non c’è riscatto e nessuna vita nuova ad attenderle. Un’immagine che rimane indigesta, si deposita e non va via, persino l’immaginazione a questo punto della fiaba non funziona più.

Nascondersi dietro un ruolo ma cercare altrove la propria identità, come per Cenerentola anche nella storia di Pinocchio abbiamo un padre che non è mai tale, e un figlio che non ha chiesto di esserlo.

foto di Giovanni Chiarot
foto di Giovanni Chiarot

Il burattino di Pommerat nella regia di Arcuri e con l’interpretazione di Matteo Angius sa pescare dettagli e caratteristiche anche altrove, ad esempio in quelle di un Ubu che burattino all’inizio è stato anche lui. Pinocchio, Ubu, figure archetipiche come quella di Gesù Cristo, parlano tutte e in modi diversi di povertà. Pinocchio ha fame, pretende cibo da un padre che non sa come accontentarlo, reclama quel che gli spetta e subisce come onta del male l’essere povero. Meglio morire che ammetterlo. Come Ubu il nostro Pinocchio è avido, agisce secondo i bisogni del ventre, ha l’ansia di possesso e reclama la propria libertà con gesti inconsulti. I burattini non sono più gli sciocchi buffoni di un tempo, cominciano a condividere le complessità della vita, le confusioni identitarie. Eppure fanno ridere, anzi il riso è il lievito di questo spettacolo, e in alcune scene corali è l’ago che tende il ricamo del nonsense.

foto di Giovanni Chiarot
foto di Giovanni Chiarot

Solo quando sghignazzi, piroette, acrobazie, danze hip hop, fragore e urla cessano, lo spettacolo si riposa e sulla scena rimangono esanimi i corpi di due personaggi fatti fuori da un colpo di pistola anonimo. Avevano reclamato per se un attimo di attenzione, la morte li aveva spazzati via e avevamo riso della loro sorte. Ora sono lì, corpi inermi ed esibiti ma solo per un attimo: lo spettacolo “deve” continuare. Di nuovo un’immagine come un sasso, dura da buttar via. Tornano in scena i personaggi, indossano alcune maschere di animali che abbiamo già visto nella scena iniziale, cantano e si dimenano su una canzone rock come una band bene orchestrata.

foto di Giovanni Chiarot
foto di Giovanni Chiarot

Ancora un teatro di visioni sfasate: fame, riso, morte e frenesia. Non parliamo di ambiguità, e neanche di imbroglio, le fiabe ci abituano alla doppiezza. Liberate dall’ingombro della speranza, consegnano qualche sfasatura e molti nodi che talvolta è bene non sciogliere.

 

 

Doriana Legge

visto al Teatro San Giorgio di Udine – febbraio 2016

CENERENTOLA / PINOCCHIO
di Joël Pommerat
con Luca Altavilla, Valerio Amoruso, Matteo Angius,
Gabriele Benedetti, Elena Callegari, Irene Canali, Rita Maffei, Aida Talliente
e con Sandro Plaino (in Pinocchio)
spazio scenico Luigina Tusini
assistente alla regia Matteo Angius
regia Fabrizio Arcuri
una produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG in collaborazione con Accademia degli Artefatti

 

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Doriana Legge
Doriana Legge
Doriana Legge è docente di Storia del Teatro e Problemi di storiografia dello spettacolo presso l’Università degli studi dell’Aquila. Nel 2014 ha conseguito il dottorato di ricerca in Generi letterari presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli studi dell’Aquila. Dal 2013 fa parte del comitato di redazione della rivista di studi “Teatro e Storia” edita da Bulzoni. Collabora a voci enciclopediche per il Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani. Scrive per la rubrica teatrale dell’“Indice dei libri del mese”. È anche musicista e compositrice per cinema e teatro, autrice di sonorizzazioni che portano a indagare le immagini pensando relative drammaturgie sonore. Da gennaio 2017 collabora con Teatro e Critica. Per consultare i suoi lavori e pubblicazioni più recenti: https://univaq.academia.edu/DorianaLegge

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