Jan Fabre dirige Cédric Charron in Attends, attends, attends… (pour mon pére), al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano. La recensione

La scena si apre su un’immagine onirica. Dal suolo si leva una foschia bianca, Cédric Charron, avvolto tra i fumi e vestito di rosso cangiante, ha il volto coperto da un cappello, in mano una lunga asta.
Così inizia Attends, attends, attends…(pour mon pére), produzione di Jan Fabre/ Troubleyn presentata al Teatro d’Arte – spazio teatrale della Triennale di Milano -, che inquadra dalla prospettiva di un figlio l’accompagnamento alla dipartita del padre. È un percorso che si avvale di tappe e simboli, la danza disarticolata e ferina di Charron trova alcune “stazioni” per comporre il suo personale commiato. Si rivolge direttamente al padre, gli fa dono delle monete che ha in tasca: una sull’occhio destro, una sul piede sinistro e via dicendo, come a tentare di costituire un corredo funebre di oggetti e frasi spezzate.

La scena è abitata soltanto da Charron e sembra assumere un movimento respiratorio, all’inspirazione corrisponde un ritrarsi della coltre di fumo, che viene di nuovo soffiata sul palco, fino a invadere la platea. Allo stesso modo il tempo – rarefatto, ipnotico – sembra d’un tratto scivolare via. Charron supplica e ripete «Aspetta, aspetta, aspetta papà, lasciami cantare il canto del desiderio». Ciò che ha da dirgli non si può esaurire, è il testamento di una relazione costretta a interrompersi, cui si tenta di appigliarsi per donare ancora un po’ di sé, per ringraziare di aver capito, per rievocare i ricordi, le storie, gli aneddoti.
Ci sono tre microfoni rossi con cui l’artista differenza i suoi interlocutori: se stesso, il defunto genitore e non ultimo Jan Fabre, suo padre artistico. Sembra essere assorbita e riconsegnata in maniera originale la lezione kantoriana sul teatro della morte, quella visione secondo la quale il performer è interlocutore tra i vivi e i morti, medium tra il qui e ora e il lì e allora, laddove la morte fornisce l’immagine più potente per rappresentare la vita. La sua danza è scomposta, ruvida e bestiale; il gesto è amplificato dalla proiezione della lunga asta flessibile con cui a tratti si muove; la carnalità si fa brutale, sanguinolenta, feroce. Lontano da ogni evocazione lacrimosa, questa performance è un rito scenico ipnogeno che, attraverso la commistione di fumo, suono, danza e tramite l’eco delle sospensioni, delle interruzioni irreparabili, raggiunge quel compito di cui Charron parla al padre: «Vivo per penetrare la bellezza del mondo, per percepire l’eleganza dell’inutile».
Giulia Muroni
Visto alla Triennale Teatro dell’Arte, Milano – Marzo 2017
Attends, attends, attends… (pour mon pére) – Troubleyn/Jan Fabre
testi, direzione, coreografia, luci, costumi: Jan Fabre
musica: Tom Tiest
drammaturgia: Miet Martens
produzione: Troubleyn/Jan Fabre,
co–produzione: Festival Montpellier Danse