Gianni Staropoli, calabrese, da anni è light designer per la scena e ha avuto modo di collaborare con artisti come Marcello Sambati, Massimiliano Civica, Alessandra Cristiani, Silvia Rampelli, Lucia Calamaro, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Enzo Cosimi, Jacopo Gassman, Veronica Cruciani. Intervista
La drammaturgia della luce e la sua presenza scenica, a riempire e creare lo spazio attorno agli attori, per i loro movimenti; è un lavoro da artigiano e dietro le quinte che costruisce lo spettacolo e lo modella dandogli forma. Ne abbiamo parlato con Gianni Staropoli, riflettendo sullo sguardo e sulla capacità di vedere, al buio.
Gianni Staropoli, per chi lavora con la luce, cos’è il buio?
È un momento particolare della percezione dell’occhio. È un momento drammaturgico. Va pensato così come va pensata la luce. Come arriva? Cosa lo porta? Può essere spinto all’estremo, come in Castellucci, dove il buio diventa presenza totale. A volte è semplicemente una piccola pausa. Nell’ultimo lavoro con Daria e Antonio (n.d.r. Deflorian/Tagliarini), non c’è buio. Sono loro a chiedere al pubblico di chiudere gli occhi.
Il buio svolge un ruolo importante anche per il ritmo dello spettacolo, penso alle dissolvenze al nero cinematografiche…
Il montaggio in teatro è ancora più delicato e fragile, perché al contrario del montaggio cinematografico non è fissato, e può sbilanciare il risultato finale. Ho lavorato in uno spettacolo dove ad ogni cambio di scena corrispondeva un passaggio di tempo. Insieme con la regista, abbiamo impostato una transizione sempre uguale: una luce scende velocemente mentre un’altra entra a stacco. Abbiamo cercato di creare un codice ben definito, come il flashback cinematografico, per creare un piccolo segno.
Nei teatri di oggi esiste il buio vero? Le uscite di emergenza sono sempre illuminate.
A volte chiedo di spegnere i faretti di emergenza solo all’inizio o solo alla fine, se lo spettacolo lo richiede. Se un personaggio deve entrare come un’apparizione, ad esempio, la figura ha bisogno di emergere da quello spazio infinito che il buio crea. Se le quinte sono mezze illuminate, e si intravedono le americane, il sipario…si perde tantissimo.
Mi hanno raccontato – credo sia vero o comunque plausibile – che la prima cosa che fa Bob Wilson quando entra in uno spazio è fare il buio. Poi, quando gli occhi si sono abituati all’oscurità, compaiono tutte le piccole fonti di luce prima invisibili. Fa chiudere anche quelle, e va avanti così fino al buio vero.
Probabile; a livello di retina, quando ad una situazione di luce segue il buio, ma c’è una qualche fonte di luce, l’occhio vi si appiglia subito. Non c’è scampo, percepisce subito lo spazio.
E il buio è uno spazio di per sé?
Il buio aumenta, dilata lo spazio. È anche uno spazio, e non è vuoto. A teatro il buio può essere agito, giocato, raggirato. Nella realtà è diverso.
C’è un racconto di Asimov, Notturno, nel quale gli abitanti di un mondo con sei soli non hanno mai conosciuto il buio vero. Finché non si verifica un’eclissi totale, con reazioni impreviste…
Infatti nella realtà il buio ha un impatto molto più forte. Modifica gli eventi e le presenze. Nel buio c’è un’immagine che si cancella. Avere un’illuminazione da destra o da sinistra, nella realtà, cambia radicalmente la nostra percezione. Non è come a teatro, dove in qualche modo ti aspetti un uso espressivo della luce.
E la luce che spazio è?
È una materia attiva che mette in relazione lo spazio con tutta la vita che esso può contenere. Dà vita e trae dal buio le cose e le persone. Crea le distanze, le relazioni e il rapporto tra l’essere e l’essere visto, concetto fondamentale per il teatro. È anche un elemento della quotidianità che ha moltissimo a che fare con la scansione del tempo.
Qual è il tuo apporto creativo ad un progetto?
Per un luciaio è basilare assistere alle prove e leggere il testo. Poi si può sperimentare.
La luce può nascere da tante cose: lo spazio, i movimenti che fa un attore, il testo. Il periodo delle prove è utile per fare dei tentativi, per verificare quello che hai immaginato. E se il rapporto tra luciaio e regista è forte, il risultato sarà forte. A me piace portare idee, esprimermi. E non fare effetti solo per “masturbare l’occhio”, come diceva Carmelo Bene.
Come mai ti definisci luciaio?
Ombrellaio, calzolaio, macellaio: sono lavori artigianali. È vero, c’è tanta tecnologia di mezzo, ma il luciaio è ancora colui che sperimenta e tocca con mano gli strumenti della luce. Non è un lavoro da monitor: quando fai un puntamento e devi direzionare la luce, prendi un proiettore in mano, stringi, allarghi, e intanto osservi e costruisci. Mi sento più luciaio che light designer.
Pier Lorenzo Pisano