The Brig, uno degli spettacoli icona del Living Theatre, viene messo in scena al Teatro Due di Parma con la regia di Raffaele Esposito. Recensione
«After the beautiful nonviolent anarchist revolution
You will belong totally to yourself and you belong to me
and all of us
Because, after the beautiful nonviolent anarchist revolution
There will be no contradiction
Between total autonomy and total sociability
After the beautiful nonviolent anarchist revolution
We will move together in a free flow of human action».
A parlare, ma dovremmo dire a invocare a viva voce, a trascinare i presenti dentro questa utopia concreta, era Judith Malina, che assieme a Julian Beck dal 1947 diede vita a una delle esperienze teatrali maggiormente rivoluzionarie del Novecento. Il Living Theatre influenzò il mondo del teatro e non solo (un po’ di tempo fa avevamo parlato dell’esperienza di uno spettatore di eccezione di Paradise Now, Al Pacino) con un taglio anarchico, figlio contrario al proprio tempo, a una Nazione che di lì a poco avrebbe intrapreso la guerra in Vietnam.
Questa «bellissima non violenta rivoluzione anarchica» della comunità (non compagnia) newyorkese creò spettacoli indimenticabili, ribaltando e però mantenendo la traccia essenziale dei classici, scrivendo in scena un nuovo approccio al teatro e alla vita.
È del 1963 uno degli spettacoli iconici, The Brig, tratto dal racconto di Kenneth H. Brown, a partire dalla sua esperienza di reclusione in una struttura detentiva militare. Nelle mani di Beck e Malina quella violenza raccontata si tradusse in una riproduzione scenica fedelissima, estenuante per chiunque vi partecipasse, azione che difatti vide l’intervento delle forze di polizia (ma anche del servizio imposte!) a bloccare la rappresentazione. Le cronache raccontano però che il provvedimento non riuscì a impedire che gli spettatori, per tre giorni, provassero ad arrampicarsi per guardare lo spettacolo che continuava a svolgersi all’interno del teatro barricato, prima che i componenti venissero arrestati.
Dopo quell’episodio il Living scelse la via nomade, in un giro mondiale che spesso fece tappa anche in Italia. The brig, chi scrive, lo ha visto per la prima volta dal vivo (e non nella versione cinematografica di Jonas Mekas del ’64) a fine 2008 al Vascello di Roma, con la ripresa della regia di Malina ancora viva e carcerieri e carcerati che a ogni replica si scambiavano i ruoli per compensare l’immane sforzo fisico diseguale degli uni rispetto agli altri. L’ultima occasione per poter testare quella scrittura scenica fatta di azioni snervanti, colpi continui e un copione composto da due atti, pochissime battute e un ferreo regolamento da rispettare, è invece stata offerta dal Teatro Due di Parma, che ha deciso di confrontarsi con questa pietra miliare, affidandone la regia a Raffaele Esposito e dunque chiedendo non tanto di replicarne la forza quanto, probabilmente, di testarne ancora la valenza.
«È un esperimento» ci racconta Paola Donati, direttrice del Due che lo ha prodotto e ospitato per tre settimane all’interno di uno dei tanti spazi del teatro parmigiano, ed è interessante che sia stato un attore a lavorare sul riadattamento registico, dal momento che questo lavoro è essenzialmente centrato sulla figura di un performer il cui impegno fisico ed emotivo richiesto è di carattere eccezionale. Non è un caso, ci racconta ancora Esposito, che ciascun componente del gruppo si sia allenato – duramente – con degli ex parà della Folgore, sottoponendosi a un training fisico e vocale (curato da Francesca Della Monica) che li ha messi a dura prova, esattamente come fu per il Living. Esposito sceglie di rimanere estremamente fedele alle indicazioni originarie e allo spirito del lavoro (anche se in questo caso non avviene lo scambio dei ruoli), avvicinando costumi e gergo a un orizzonte di idee più attuale, mentre l’intervento più significativo riguarda la scelta del posizionamento di palco e platea, il primo al centro di due strette scalinate aggettanti sui lati, divise soltanto da una barriera metallica anch’essa presente nell’originale.
The Brig si può considerare un testo (scenico) classico? Il valore di un’operazione come questa si misura nell’ordine del recupero di un repertorio oppure assume ancora una valenza trasformativa e prorompente? Sono questioni dalle quali non si può prescindere, anche se lo spettacolo per sua propria natura sposta, almeno in una prima istanza, a una compartecipazione totale. Immaginate buio pesto, claustrofobico, quindi una sveglia urlante di voci perennemente gridate, poi brandine ribaltate con forza, reclusi costretti alla corsa perenne, alla sottomissione forzosa, anche verbale, in un luogo in cui è bandito il «per piacere», in cui ogni tempo è scandito metronomicamente. Poi corpi sbattuti a terra, in mezzo alla polvere raccolta o all’acqua insaponata, quindi lanciati malamente di fronte ai vostri visi, che stanno a venti centimetri dall’inferriata. Vorreste forse compiere un gesto di conforto, una carezza, un sorriso, mentre loro a fatica riprendono fiato e ritornano all’inferno con uno sguardo epurato da qualsivoglia sovrastruttura recitativa. «Dopo il colpo il prigioniero si erge eretto e fiero giacché, se non ha vinto, è almeno sopravvissuto» indicavano le note di regia di Malina. Quello in cui si trovano e ci troviamo è un «sistema rigido che trionfa nella lotta col bisogno animale».
Questo è The Brig, e sicuramente lo sconvolgimento non è lo stesso di sessant’anni fa. Abbiamo vissuto altri terrori, siamo vittime di una violenza molto più astratta, melliflua, celata, meno evidentemente letale. Eppure, a un certo punto, avreste alzato gli occhi dall’arena e avreste visto un altro spettacolo, fatto delle reazioni di chi, seduto di fronte a voi, para virtualmente i colpi, soffre, si copre la bocca spalancata per riflesso, cerca conforto, compartecipa allo scempio operato a danno dei reclusi.
Sicuramente questa manifestazione non è più soltanto finzione, è un vero e proprio teatro che accade in scena e dunque vive; e non è soltanto dovuto al meccanismo drammaturgico del dispositivo infernale creato dal Living e messo in piedi nuovamente da Esposito, ma anche agli attori che lo sopportano. L’energia che sono in grado di sostenere freme sui loro polpacci, sulla tensione negli occhi, sulle voci oramai disarticolate. Forse in un primo momento avrebbe anche potuto infastidire il biascicare sformato o l’atteggiamento istituzionalizzato di una delle due parti, ma è proprio anche contro questo che si batte lo spettacolo. Contrapponendo la pulizia formale (il più delle volte impeccabile) alla paradossalità della situazione – inalienabile perché allineata – l’intento è ancora quello di smuovere gli animi contro i soprusi della società. Certo adesso dovremmo diventare ancora più abili, perché l’umiliazione culturale, sociale, personale, non passa soltanto per le strade già battute. Noi stessi non siamo più «vittime inconsapevoli» (così definisce il sociologo Wolfgang Sofsky, che a lungo ha riflettuto sul concetto di violenza, e le cui parole sono riportate nel libretto dello spettacolo), siamo anche noi complici. Serve allora compiere un’azione in più, partire sì dalla metafora teatrale ma fare in modo che quella trasformazione permanga nella realtà.
Viviana Raciti
Teatro Due, Parma – marzo 2017
LA PRIGIONE
Dal testo originale The Brig di Kenneth H. Brown
con
Luca Cicolella,
Lucio De Francesco,
Luca Filippi,
Lorenzo Frediani,
Gabriele Gattini Bernabò,
Michele Lisi,
Dino Lopardo,
Alessandro Maione,
Nicola Nicchi,
Massimo Nicolini,
Gian Marco Pellecchia,
Gabriele Pestilli
preparazione vocale
Francesca Della Monica
luci
Luca Bronzo
realizzazione spazio scenico
Mario Fontanini
realizzazione costumi
Elisabetta Zinelli
regia
Raffaele Esposito
produzione
Fondazione Teatro Due