Fabrizio Gifuni diventa Lo Straniero di Albert Camus. Molto più di un reading dal Teatro Vascello di Roma, in un paesaggio sonoro e di luce. Recensione
Un caldo improvviso, proprio alla base delle spalle, una crescente, dilagante perdita di equilibrio e un dolore fluido, lento, dietro la nuca di lettore. E di tutto il secolo Novecento.
L’esperienza ha inizio dal saggiarne il peso, scovare le prime parole scritte nel 1942 da Albert Camus dentro Lo Straniero, sentirle scorrere tra le dita che tengono dritto il volume, sentirle correre da una vita all’altra, quella di Meursault nella propria, scoprire la prossimità consanguinea di entrambe, oltre ogni aspettativa. La progressione dall’esistenza vagamente annoiata dell’impiegato Meursault (in cui si rintracciano alcuni caratteri del Bartleby di Melville), che diventa gradualmente omicida per caso, procede a piccole ondate: dapprima la caduta verso un’indifferenza retroflessa, in cui gli eventi si sostituiscono come i minuti alle ore, seguendo semplicemente una cadenza prestabilita, poi pian piano una risalita di coscienza raffina l’acquisizione del dolore – avvertito e provocato – come misura dell’azione. Ma in tale processo è più ancora visibile il carattere squisitamente sentimentale capace di rintracciare, nel “corpo cavo” di un uomo privo – o privato – di stimoli emozionali, gli accessi di un ravvedimento dello spirito, sotto forma tuttavia di una tardiva consapevolezza.
Le mani di Fabrizio Gifuni devono aver agito allo stesso modo, soppesando il libro e il pensiero di tradurlo in una forma teatrale. Gli occhi si saranno poggiati su quella prima frase: «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so», con il punto alla fine. Un primo brivido avrà percorso la pelle ma quasi impercettibile, quasi sul filo tra richiudere il libro e andare a fondo in quelle parole secche e grinzose. Ma l’attore è più di altri figura totalmente vocata alla trasmissione di caratteri emozionali, la qualità mimetica sa accogliere la materia in un’orma, a tal punto che la traslazione di una vita nell’altra può assumere doti quasi trascendenti; in virtù di questa natura, quando un attore del pregio di Fabrizio Gifuni affronta un classico letterario, ne sa evidenziare le forme perché siano valorizzate in una struttura composita. Tale il lavoro svolto con Lo Straniero – un’intervista impossibile, portato in scena al Teatro Vascello di Roma insieme alla cura di Roberta Lena, con pochi elementi a sostegno di quel che è in apparenza poco più di un reading, ma che grazie alla dote attoriale, al tessuto sonoro immaginato e suonato da G.U.P. Alcaro, una cura illuminotecnica eccellente, sa diventare uno spettacolo raffinato e un importante derivato dall’opera di Camus.
Fabrizio Gifuni indossa un abito bianco granuloso, sabbioso, che l’effetto della gradazione luminosa accentua o attenua secondo la necessità, a definire attorno ora la camera mortuaria dell’ospizio dove giace morta la madre di Meursault, ora la spiaggia sotto il sole torrido «che cadeva a piombo», ora la prigione dove la coscienza del gesto sconsiderato inizia a insinuarsi lungo il crinale della colpa, virando su toni più spessi, opacizzati fino all’ocra, la gestione della tonalità di luce.
La drammaturgia sonora affianca invece con maggiore dinamismo il taglio del testo, corroborando la composizione ambientale in un amalgama denso e concreto, un’eco sinistra, come desse corpo proprio a quella sottile ma continua emicrania.
E l’attore, proteso verso il proscenio, asseconda la storia avvertendone il flusso lungo i propri lineamenti, desta con i cambi di voce l’intera ambientazione e raccoglie in una postura quasi accenni di coreografia, perché sia innegabilmente il corpo a farsi latore di un messaggio rovinoso, di incessante penetrazione nell’assenza di argini ai possibili accadimenti umani. È alla memoria che infine Meursault giunge: nelle oscurità della mente e della prigionia rintraccia i «pensieri da uomo libero», inarca la sonda del proprio sentire e coglie il nodo della propria apatia verso la vita, verso l’umano, verso sé stesso. La missione è compiuta, l’attore può lasciare che il personaggio sperimenti nel buio la redenzione dalla colpa, attraverso lo sfinimento della vicenda e di sé, ma è proprio in coda la sorpresa, perché Meursault non se ne va, resta nei tratti dell’attore che si avvicina alla platea, la ringrazia nella forma circolare di un abbraccio, ma suda ancora una spiaggia cocente, misura il giramento di testa alle parole appena devitalizzate; oltre il teatro, ancora in vita, scivola lo spirito dell’opera in un inchino a terra.
Simone Nebbia
visto al Teatro Vascello, Roma – marzo 2016
LO STRANIERO
un’intervista impossibile
(da L’Etranger di Albert Camus)
con Fabrizio Gifuni
suono G.U.P. alcaro
ideazione e regia Roberta Lena
produzione il Circolo dei lettori di Torino