In occasione del debutto italiano di Emilia di Claudio Tolcachir, prodotto dal Teatro di Roma, abbiamo incontrato il regista e drammaturgo argentino. Intervista
L’allestimento di Emilia è appena cominciato. In un soleggiato martedì pomeriggio, una squadra di tecnici sta montando sul proscenio del Teatro Argentina un piccolo percorso di scale che conduce in platea. Per il resto, la scena resterà vuota. Fino al 23 aprile, data dell’ultima replica, questo asettico ambiente fuori dal tempo verrà abitato solo da cinque attori: Pia Lanciotti, Giulia Lazzarini, Paolo Mazzarelli, Sergio Romano e Josafat Vagni.
Claudio Tolcachir mi accoglie con una ferma stretta di mano e con un grande sorriso che illumina il viso incorniciato dai capelli rossi. Ci spostiamo in uno dei palchi di platea, aperto apposta per noi: insieme a noi c’è Cecilia Ligorio, traduttrice del testo e delle sue parole nelle settimane di prove romane, e c’è poi un tangibile senso di intimità che, quasi un quarto avventore, mi riporta a come immagino siano stati i primi spettacoli pensati da Tolcachir. La sua compagnia Timbre 4, infatti, è nata come esperienza molto circoscritta, una sorta di “teatro nelle case” ambientato nel seminterrato di un appartamento a Buenos Aires, per poi trasformarsi in una realtà apprezzata in tutto il mondo.
Sta per debuttare al Teatro Argentina Emilia, uno spettacolo che ha già avuto grande successo in altri paesi e che ora torna sul palco con un cast interamente italiano. Che cosa ha significato per te lavorare con questo gruppo di attori?
Ha rappresentato molte sfide in una. Innanzitutto il fatto che un teatro di questo prestigio si sia interessato a un mio testo mi ha molto emozionato e insieme spaventato. Il fatto che Giulia (Lazzarini, ndr), dopo aver visto lo spettacolo a Milano (Emilia nella versione argentina al Piccolo Teatro nel 2015, ndr), si sia interessata al testo mi è sembrato qualcosa di molto vivo ed eccitante. È la prima volta che lavoro in un’altra lingua e Cecilia Ligorio è stata un importante ponte con gli attori. Qualcosa di molto interessante è successo al momento delle audizioni, dove ho incontrato attori straordinari: immaginarmi quest’opera abitata da quei corpi mi sembrava molto stimolante e rinfrescante. Sono attori parecchio diversi da quelli che hanno interpretato le altre versioni e, poiché ogni volta si riscrive il testo sul corpo degli attori che vi stanno lavorando, mi è parso che avesse molto senso dare a Emilia la possibilità di abitare questo nuovo corpo. E certamente anche io sono una persona diversa da quando ho scritto Emilia e l’Emilia di oggi rispecchia il mio io attuale.
A proposito dello scrivere immaginando i corpi: pensi che nella tua carriera di drammaturgo tu abbia sviluppato un metodo di scrittura?
Io non sono uno scrittore. Scrivo come una donna incinta deve necessariamente partorire, ma non credo che la scrittura sia la mia professione. Piuttosto fare regia e recitare, insegnare, mentre scrivere è un atto ancora molto misterioso per me.
La tua compagnia rappresenta un’esperienza che sarebbe difficile realizzare nell’Italia di oggi. Che differenza c’è per voi tra incontrare il pubblico nella tua città e incontrarlo in altri paesi del mondo?
Abbiamo iniziato in quel garage facendo teatro per quaranta o cinquanta persone, ci lasciava quindi perplessi il fatto di trovarci improvvisamente a Parigi, a New York o a Madrid, di fronte a un pubblico interessato al nostro lavoro. So che cerchiamo di essere onesti e genuini e credo che queste siano le due parole fondamentali per me nel teatro. Confrontarsi con il teatro è come mettersi di fronte a una persona; se il tuo punto di forza è l’intelligenza, comunicherai attraverso l’intelligenza, se sei una persona propriamente emotiva, attraverso le emozioni; ogni tanto succede che si riesca a presentarsi nella maniera più onesta e nuda possibile e credo che nel teatro questo tipo di incontro si produca quando uno rischia nel dimostrarsi per quello che è.
Nel 2013 andai a vedere tre spettacoli di Timbre4 al Napoli Teatro Festival. Quella genuinità arrivava ancora prima della qualità generale, una sensazione di vicinanza molto forte. Allora dicesti che il contesto napoletano ti aveva aiutato perché ti ci riconoscevi molto. Ti chiedo allora se esista per te un teatro argentino.
No, non penso assolutamente a un “teatro argentino”, penso ai temi che mi commuovono, a ciò che mi irrita o mi angoscia, e lo scrivo con il linguaggio che conosco e che trovo sia il migliore per quei precisi personaggi.
E che mi dici dell’espressione “teatro internazionale”? Che cosa significa per te?
Mi piace sperare che non esista neppure quello. Credo che ciascuno faccia quello che può, che quando ci si direziona verso l’idea di una forma “internazionale” di teatro cominci a crearsi come del rumore nella testa. Ci sono artisti, certo, che ci riescono magnificamente, ma credo che, se si pensa alla creazione più pura, torni quell’immagine del parto, quella zona di intimità. Alcune opere piacciono a mille persone, altre piacciono a quindici, ma non credo che questo le renda migliori o peggiori. Tra i miei stessi lavori, alcuni li ho amati molto e, nonostante non siano poi andati così bene, per me restano un successo. Ma uno non può smettere di fare quel che ama fare.
Se guardi ai tuoi primi lavori e a Emilia, anche considerando la fortuna e il respiro internazionale che sta avendo, che tipo di percorso vedi rispetto al tuo lavoro?
Emilia possiede varie particolarità, la prima è che l’ho scritto da solo, senza passare per il lavoro di prova e di improvvisazione con gli attori. Volevo giocare a essere uno scrittore e rinchiudermi con il mio computer. È stato orribile. (ride, ndr). Negli altri miei testi le cose che succedono e le circostanze sovrastano i personaggi, mentre nel caso di Emilia tutti sono consapevoli del gioco a cui stanno giocando. Credo che questo la renda un’opera più cupa, perché non c’è spazio per una certa innocenza che io amo molto e che regalo ai personaggi per farli vivere senza che loro sappiano come la loro vita andrà. Questi personaggi, invece, si rendono complici della propria storia e di quella collettiva, processo che li rende più complessi. Anche se restano molta ironia, molto amore, molto gioco. È la particolare caratteristica della loro coscienza a rendere differenti questi personaggi.
Ho infatti notato che i caratteri non vengono mai spiegati o illustrati, ma si comprendono – come accade sempre, ad esempio, in Čechov – attraverso il loro rapporto di interrelazione. In questa coscienza che è dominio di tutti, i caratteri emergono dal contrasto.
Beh, questo è il mio sogno, e ti ringrazio del complimento.
Gli attori che hai scelto portano sulla scena formazioni molto diverse, provengono da esperienze differenti. Tu sei anche un formatore, un pedagogo, dunque ti chiedo che cosa significhi per te insegnare e trasmettere il teatro.
Credo che la maggiore virtù per un maestro e per un regista sia avere un buono sguardo, per poter vedere che cosa c’è nell’altro e che probabilmente l’altro non sa di avere. Un buon maestro, allora, è colui il quale fa nascere l’attore che c’è nell’allievo. Non mi interessa l’idea di un attore retorico che parla bene, che si muove bene e che è corretto nel dire le cose: ovviamente la tecnica è la base necessaria per muoversi e agire, ma per giungere al teatro che mi commuove ho necessità di vedere l’umanità dell’attore. Non mi interessa avere un attore che irradi un messaggio del tipo: «Che bella voce ho, quanto sono bravo a muovermi o a dire», così come non mi interessa un regista che incensi le proprie stesse capacità di intelligenza o di perspicacia. E lì torniamo alle parole di prima, all’onestà e alla genuinità.
Come nel tuo laboratorio al Biennale College a Venezia, nel 2013, dove nel lavoro di gruppo emergevano soprattutto le specificità umane dei giovani professionisti con cui avevi lavorato. A proposito di formazione, nella tua “carriera” di spettatore, qual è stata per te un’esperienza memorabile, che cosa ti ha realmente colpito?
Ricordo molto bene quando venne a Buenos Aires Le tre vite di Lucie Cabrol del Teatro Complicite (compagnia internazionale basata a Londra e fondata nel 1983 da Annabel Arden, Fiona Gordon, Marcello Magni e Simon McBourney, ndr) che mi affascinò molto. Ma la prima volta in cui sentii davvero di voler lavorare nel teatro fu con Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo. Avevo dieci anni e ricordo di essere uscito dal teatro con la febbre, morso dall’invidia, e dicevo a mia madre: «Io voglio essere visto, voglio stare lì, voglio stare lì».
Sergio Lo Gatto
Un ringraziamento particolare va a Cecilia Ligorio, per l’assistenza nella traduzione.
Teatro Argentina, Roma – fino al 23 aprile 2017
EMILIA
scritto e diretto da Claudio Tolcachir
traduzione Cecilia Ligorio
con Giulia Lazzarini, Sergio Romano, Pia Lanciotti, Josafat Vagni, Paolo Mazzarelli,
scene Paola Castrignanò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
regista collaboratrice Cecilia Ligorio
Ho visto l’anteprima di venerdì tra pochi intimi (Roma sotto assedio UE…): ho assistito ad un lavoro di squisita fattura, con una regia molto minuziosa e attenta ai particolari, con un ensemble di attori strepitoso (soprattutto nel trio Lazzarini-Lanciotti- Romano, mentre Vagni e Mazzarelli hanno forse ancora bisogno di rodaggio). Il testo, invece, sembra a tratti troppo verboso, compiaciuto di sé, con “beckettismi” verbali e fisici (il figlio che insiste per uscire di casa con qualche pretesto, il reiterarsi degli abbracci) che sono a volte troppo ripetuti ed insistiti. Qualche alleggerimento lo renderebbe perfetto.
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