Elena Arvigo è ideatrice, regista e attrice di Monologhi dell’atomica presentati in forma definitiva al Teatro Manzoni di Calenzano. Recensione
È una relazione prettamente muliebre quella che Elena Arvigo tesse con i personaggi a cui dona corpo e parola: soltanto con voce di donna sembra potersi esprimere il linguaggio adamantino dell’accudimento, della manutenzione delle esistenze, della riparazione delle ferite. L’arte della cura fa propria la vulnerabilità altrui, se ne lascia possedere e pone a essa rimedio con la costanza della presenza e il coraggio dell’incoscienza: e quest’arte parla da sempre una voce diversa, femminile per vocazione ed essenza più che per sesso.
Una different voice, come teorizzava Carol Gilligan nell’omonimo saggio, capace di smantellare con tenacia i maschi edifici della responsabilità e dei doveri, in grado di opporre un’etica intima e quotidiana alla violenta sicumera della scienza o all’indifferenza della burocrazia. È la voce con cui una donna sfida il pericolo fatale delle radiazioni e la glaciale operatività di medici e infermieri nei giorni successivi al disastro di Černobyl’, è il fermo tono con cui una sopravvissuta all’inferno di Nagasaki ne racconta l’orrore, ed è soprattutto la voce che Arvigo modula in infinite sfumature, quasi fosse un canto, quasi a voler lenire il dolore delle vittime della follia atomica.
L’attrice genovese ricorre a inconsuete appoggiature, alterna inaspettate pause ad accelerazioni, trattiene il respiro su alcuni passaggi del testo se, commossa, i suoi occhi si gonfiano di lacrime: un pianto che non è mera testimonianza di talento attorale, ma empatico affetto e comprensione del destino che è stato tracciato, lontano dal palcoscenico, sopra le vite di migliaia di persone.
E questi Monologhi dell’atomica, presentati nella loro forma definitiva al Teatro Manzoni di Calenzano, dispiegano i destini privati e drammaticamente straordinari di un piccolo gruppo di persone – due donne, una bambina, un vigile del fuoco – coinvolti loro malgrado in eventi che non riescono a comprendere, e che sembrano anzi sfidare le leggi e i limiti stessi della conoscenza umana. L’esperienza del male invisibile propagatosi dal reattore n°4 della centrale nucleare di Černobyl’, o quella della manciata di secondi nei quali Fat Man – l’ironico soprannome dato alla bomba dall’aeronautica statunitense –cancellò ottantamila abitanti della città giapponese, sono indicibili: misteri contemporanei, laici e secolari.
La parola umana sembra poter disegnare soltanto le curve delle esistenze toccate dalle due apocalissi, e percorrere di esse i desideri interrotti e le sofferenze dei corpi: una prospettiva, questa, assunta dal premio Nobel Svetlana Aleksievič nel reportage Preghiera per Černobyl’, e da Kyoko Hayashi nel memoir Nagasaki. È a partire da questi due testi che Elena Arvigo, anche ideatrice e regista dello spettacolo, compone un collage di quattro frammenti, accostati fin troppo nettamente nel tratteggiare un’umanità ordinaria ed eroica, che si staglia al di sopra di un panorama di sconcertante desolazione.
La scena ricostruisce così ciò che resta di un interno di un’abitazione comune dopo la devastazione: un tavolo sul quale sono ammassati stoviglie e detriti, due cassetti rovesciati a terra, una spoglia branda in metallo. L’attrice entra indossando una tuta bianca e una maschera antigas, aggirandosi come un esploratore in un paesaggio lunare; la gestualità misurata con cui, pochi istanti dopo, si spoglia della tuta, e lo sguardo che getta con rimpianto sulle tracce della vita che sembrava abitare quel luogo, tradiscono la rassegnazione – ma anche la dignitosa compostezza – con cui la popolazione di Pryp’jat’ affrontò la tragedia.
A parlare per prima è la moglie di uno dei membri della squadra dei vigili del fuoco chiamata a spegnere l’incendio originatosi dopo il collasso del reattore: ma è restia alla narrazione, dichiara di non sapere cosa dire. È un terrore senza nome quello che ha attraversato la città il 26 aprile 1986, e il raccontarlo ne implicherebbe l’iscrizione in categorie già note e date: e tuttavia a rivelarsi nella città ucraina è stato lo squarcio di un futuro possibile. Cronaca dal futuro è non a caso il sottotitolo che Aleksievič pone al proprio saggio; mentre inconoscibili appaiono le conseguenze dell’incidente, fin troppo note sono l’inaccettabile omertà delle istituzioni sovietiche, o le piccole menzogne e gli inutili soprusi commessi su uomini e donne comuni in nome dell’emergenza. Arvigo attraversa così, accompagnata da un dolore che sembra costringerla a un’implosione silenziosa, le tappe dell’evacuazione forzata, o i ricordi di una bambina costretta a sperimentare la discriminazione connaturata all’essere stata esposta alle radiazioni.
La drammaturgia si fa lancinante azione quando l’attrice, volgendo le spalle al pubblico, si rivolge a un letto vuoto, o quando pianta con cura piccole margherite su un pugno di terra conservato in un cassetto: una ricchezza di soluzioni il cui improvviso abbandono nel frammento dedicato al bombardamento di Nagasaki determina una frattura nella struttura complessiva dello spettacolo. Virando verso una forma di lettura scenica soltanto giustapposta alle precedenti sezioni, Arvigo sceglie di interpretare il passaggio nel quale Hayashi ricorda gli istanti successivi alla deflagrazione con l’utilizzo di un leggio, quasi a voler suggerire un’oggettiva difficoltà di traduzione della «violenta furia» scatenata dal governo degli Stati Uniti. L’olocausto nucleare sembra situarsi in una zona liminale, dove parole e idee sono vuote e inane: eppure esso è stato percepito sotto la pelle, nelle ossa, nei feti abortiti e sui terreni contaminati. È storia recente: da inchiodare per sempre alle assi di un palcoscenico, da contenere tra le mura di un teatro.
Alessandro Iachino
visto al Teatro Manzoni/Teatro delle Donne, Calenzano (FI) – marzo 2017
MONOLOGHI DELL’ATOMICA
da “Preghiera per Cernobyl” di Svetlana Aleksievich e “Nagasaki” di Kyoko Hayashi
un progetto di e con
ELENA ARVIGO
regia Elena Arvigo
disegno luci Daria Grispino
regista collaboratrice Virginia Franchi
assistente alla regia Valeria Spada