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Compagnia Arcalòh. L’enigma scritto sul corpo della Sfinge

Al Teatro Studio Uno di Roma la danza di Melissa Lohman (con Flavio Arcangeli formano la Compagnia Arcalòh) è un esperimento delicato e misterioso. Recensione

foto ufficio stampa
foto ufficio stampa

«Ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato». Il principio di Archimede mi torna tra le mani sfogliando un libro a caso tra i molti accatastati sugli scaffali, nel foyer del Teatro Studio Uno di Roma, mentre aspetto di entrare a vedere Sfinge, della Compagnia Arcalòh.

Nella piccola Sala Specchi, insieme a troppo pochi altri spettatori, scivoliamo giù in un esperimento rarefatto, scritto per un solo corpo, quello di Melissa Lohman, performer americana di stanza a Roma, dove collabora con Flavio Arcangeli, che qui cura il disegno luci. Nel buio spicca, come un minuto totem iridescente pur se non ancora illuminato, un oggetto indefinibile, dalla solida forma arcaica. Mentre l’occhio si abitua all’oscurità, sul fondo diviene via via meglio percettibile un corpo di donna accovacciato, che muove avanti e indietro le braccia come un cane scaverebbe una buca. Una luce tenue sale poco a poco a illuminare la performer, che si alzerà poi in piedi e sposterà arti, busto e collo quasi attraversata da un fluido che non le lascia pace.

I suoi occhi chiari, sgranati e senza espressione, sembrano non mettere a fuoco nulla, la direzione dello sguardo non è coerente con gli spostamenti del corpo, vestito di pantaloni ampi e di un leggero top marrone scuro.
Il silenzio è l’altro protagonista, talmente teso da inibire anche il minimo movimento degli spettatori, ipnotizzati da movenze oscillatorie, come persi a individuare quella spinta verticale dimostrata da Archimede. A fratturare quel silenzio è una voce off: su un’unica nota, emessa appena e sempre a rischio di spezzarsi, si innestano le parole «I was», “io ero”.

Ma adesso il totem è in luce, ed è in tutto e per tutto un omphalos, un artefatto di pietra che segna il centro, l'”ombelico” di una geografia, la sua superficie dorata chiama qui una sorta di confronto. Allora la danzatrice si volta di spalle e diviene pura carne, lasciando ai nostri occhi solo la mostra di ogni muscolo intorno a una spina dorsale che appare e scompare, come un serpente preda di un’inquieta mutazione.
Il movimento delle mani scandisce una mimica ermetica, scava un canale comunicativo che non ha niente a che fare con la parola, mentre la danza procede tra rotazioni del collo e una superba e coerente asimmetria degli arti.
Così la Sfinge («guardia che risiede ai limiti dell’inconscio», secondo le note di regia) compone il suo enigma, lo stesso stampato su un foglio che, solo ora mi sovviene, mi avevano lasciato all’ingresso: «It was» e «it will be» (“sarà”) sono i due vertici che schiacceranno ogni logica di posizionamento nel tempo, mentre Melissa Lohman dialoga con la propria voce off, ora usata per imparare una sorta di dettato dell’esistenza, ora contraddetta con una semplice domanda («was it?»; “lo era?”) che, invertendo l’ordine delle parole, manda in tilt la Sfinge stessa. Was e will be si sovrappongono cancellandosi il senso a vicenda, mentre la performer guadagna il proscenio da seduta, avanzando grazie allo spostamento di peso da gluteo a gluteo.

da Facebook - foto di Jessica Iapino
da Facebook – foto di Jessica Iapino

In Sfinge torna il raccoglimento sepolcrale che già ci aveva sorpresi in Esitazioni, “jam session” di Lohman e Arcangeli sulla poesia e la vocalità di Marcello Sambati. In entrambi i lavori si assiste a un gioco di sottrazione di tempo e spazio; ma quello che lì era un dialogo tra esseri umani diviene ora un soliloquio assurdo e riorganizzato per assonanze magnetiche tra pavimento e pareti.

Mai come in questi preziosi momenti occorre essere presenti, in un esperimento radicale che realizza un paradosso possibile solo in teatro: lasciare allo spettatore la completa libertà di interpretazione (elemento squisitamente umano) per poi tradirla subito, quando questi si trova immobile e preda di un fermo governo della più animale delle funzioni, l’attenzione.

Sergio Lo Gatto

Teatro Studio Uno, Roma – marzo 2017

SFINGE
di e con Melissa Lohman / Compagnia Arcalòh
azioni, suoni, voce Melissa Lohman
improvvisazione per pianoforte Luis Alvarez Roure
disegno luci Flavio Arcangeli
residenza Teatro Studio Uno

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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