Antonio Tarantino è autore di Giuseppe Verdi a Napoli, spettacolo in scena al Teatro Vascello di Roma con la regia di Sandra De Falco. Recensione
Quanta tenacia l’arte che sappia fare politica. La storia d’Italia conosce approdi e naufragi, repressioni e ribellioni, proprio secondo le anse dello spirito artistico che la conduce al suggello di un’evoluzione sempre rigorosamente postuma, che rende martiri i propri eroi. Ma se tale equazione la si misura al secolo Ottocento, ricco di tumulti e passioni sociali indefesse, con molto meno rigore si può accedere a questa affermazione, perché l’arte ha saputo allora tracciare una linea di continua intersezione alla storia dei popoli, ha saputo cioè interpretare il cambiamento in corso d’opera, pur nella radicale turbolenza che spostava equilibri ora da un lato ora dall’altro della vicenda politica. È soprattutto in questa chiave che va letta l’esperienza di un ricco movimento creativo, quello dell’opera lirica, capace di comporre le fondamenta su cui poggiare la struttura del nascente stato italiano. Proprio su questo intendimento sembra poggiare la scrittura di quello che non si deve aver timore di considerare uno dei più importanti drammaturghi italiani contemporanei, il torinese Antonio Tarantino, per la composizione del suo ultimo testo Giuseppe Verdi a Napoli, edito da Cue Press per la cura di Sandra De Falco e dedicato ai soggiorni napoletani del grande musicista, in dialogo con il proprio storico librettista, il poeta Salvatore Cammarano.
Non è tuttavia dagli incontri ma dal carteggio che Tarantino desume le battute del dialogo – in scena per la regia della stessa De Falco al Teatro Vascello di Roma – e proprio per questo stupisce, per la qualità di conservare la caratteristica forse più cara della sua drammaturgia, quella vibrazione viscerale, anche nelle parole auliche dei due artisti ottocenteschi, ossequiose, riverenti, cariche di una formalità che avrebbe potuto lasciare il fianco troppo scoperto a una scrittura invece molle e impalpabile. E invece no: Tarantino trae forza proprio in virtù di questo rischio, sfidando l’aleatorietà dell’occasione per irretire l’ascolto quel tanto che basta a sorprendersi, poi, di un cambio di registro acuto e intelligente, non privo di una dote di surrealtà, ossia la conversione di quel dialogo solenne non secondo lo schema del parlato, ma secondo la dimensione della situazione scenica, quindi come se questo fosse un lascito, un atto di tributo alla forma teatrale. Quando il compositore e il poeta si trovano a discutere di problemi derivati, quindi della loro differenza sociale, economica, umana, l’arte lascia il campo ai problemi del quotidiano, la potenziale vaghezza del parlare si fa concretezza e benedice la trasformazione in una commedia di stampo scarpettiano.
L’espediente cui l’autore fa ricorso è duplice. Da un lato è la modulazione linguistica del personaggio Verdi che dal parlare illustre cala fino al punto di accogliere, con più o meno consapevolezza, elementi del parlato popolare partenopeo, dall’altro è l’inserimento di una figura estranea al carteggio ma perfettamente inserita nel contesto, la serva Caterina, popolana e passionale, primo motore di tale mutazione.
Opportuna è quindi la scelta di Sandra De Falco di ideare una regia che non contrasti o cerchi di sovvertire tale scelta già molto netta, soltanto valorizzando il testo di intarsi musicali e coreografici che ne accentuino i passaggi; la regista compone infatti una scena priva di oggetti e solo arricchita da una quinta di profondità, ideale per gli interventi della domestica nell’evoluzione dialogica (l’energica e vitale Giulia Valenti, capace di abitare la farsa così come alcuni segni costituenti del tragico, soprattutto nel doloroso canto finale) e per l’ingresso del personaggio che rappresenta la chiave di volta, l’impresario Flaùto del San Carlo di Napoli (dal volto dorato il sibillino Carlo Di Maio) che porterà il denaro affinché tutti i problemi “creativi” siano risolti. Nelle vesti (verdi, toh) del compositore è Paolo Giovannucci, prestante e capace di catalizzare attrazione su di sé, mentre tocca a Fabrizio Parenti nascondersi nel carattere mansueto di Cammarano, riuscendo a maneggiare una lingua non propria con particolare abilità.
Postilla. In questo testo – come nota anche Renzo Francabandera nella prefazione – è nascosta una chiave segreta, una sorta di rivendicazione del poeta che difende la propria unicità al cospetto del clamore, privo della gloria riservata all’autore musicale dell’opera. Il poeta se ne sta con il suo scartafaccio, in silenzio, nella parte buia dove non è teatro, ma senza la quale il teatro non avrebbe residenza. Non è strano coglierne una nota biografica di un autore mai presenzialista e spesso nascosto, che ha vissuto un’intera carriera a contatto con l’arte e non con la sua rappresentazione; non è strano immaginare un suo lascito inalienabile alle generazioni che seguiranno: il teatro è arte popolare, la magniloquenza delle grandi composizioni non può fare a meno di un artigiano ricorso alla parola corporea, viscerale, proprio quella di cui si è fatto portatore, per ognuna delle epoche attraversate, Antonio Tarantino.
Simone Nebbia
visto al Teatro Vascello, Roma – febbraio 2016
GIUSEPPE VERDI A NAPOLI
Ultimo testo inedito di Antonio Tarantino
drammaturgia musicale Azio Corghi
con Carlo di Maio, Paolo Giovannucci, Fabrizio Parenti, Giulia Valenti
coreografie di Valentina Carpitella
scene e costumi Roberto Crea
direzione musicale Enrico Arias
sarto Marco Gioacchini PER H2OPERA
progetto visivo locandina Chiara Coccorese
regia Sandra De Falco
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello Roma, Altre Conversazioni