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We love Arabs. Il cabaret coreografico di Hillel Kogan

We love Arabs, coreografia dell’israeliano Hillel Kogan al Teatro di Rifredi di Firenze. Recensione

Foto Gadi Dagon
Foto Gadi Dagon

Un inganno prospettico o addirittura una fallacia interpretativa sembrano poter inficiare qualsiasi riflessione critica su We Love Arabs, performance dell’israeliano Hillel Kogan che ha fatto tappa, durante una serrata tournée mondiale, al Teatro di Rifredi di Firenze. Kogan, danzatore formatosi presso la Batsheva Dance Company e assistente di Ohad Naharin, irride infatti qualsiasi aspettativa del pubblico, traducendo la propria alta formazione non in una complessa partitura bensì in un cabaret coreografico, che della danza deride le riconoscibilissime idiosincrasie. Movimento, spazio, corpo, tempo: le quattro dimensioni all’interno delle quali siamo abituati a inscrivere buona parte della galassia coreutica ‑ o dalle quali registriamo a volte superamenti e fughe ‑ sono qui mere coordinate sulle quali tracciare brevi detonazioni gestuali, intervallate da ampi momenti recitativi, debitori, più che del teatro-danza, della stand up comedy.

Foto Gadi Dagon
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Al centro di un palco vuoto, Kogan entra in scena illuminato soltanto da un occhio di bue, a ricercare, immobile in un equilibrio precario, una stasi interrotta poi da un flusso di parole inattese: ciò che udiamo è la voce di un artista colto durante l’atto creativo, nel tentativo ‑ all’apparenza impossibile ‑ di traslare verbalmente un ideale fisico e carnale. Le mani di Kogan si muovono forsennatamente, nel comico sforzo di far comprendere al divertito uditorio il senso di quelle trite formule con cui una diffusa vulgata interpreta la danza contemporanea: la ricerca di uno spazio che si lasci penetrare dal performer e al contempo la volontà di affrontarne quella porzione che invece resiste e rifiuta il corpo, sono adesso canovacci per un ironico monologo sull’ineffabilità della disciplina del movimento. Lo spazio che Kogan sembra percepire come restio all’incontro appartiene a un’alterità: una otherness assoluta, forse addirittura pericolosa, perché araba. La dirompente affermazione inserisce, attraverso la cifra del riso, quell’elemento di spiazzante attualità che trasforma la natura dei corpi sul palco da danzanti a politici: nel mettere in scena la costruzione di uno spettacolo e la difficile relazione tra un coreografo e un danzatore, We Love Arabs diviene metafora, fin troppo didascalica, della convivenza necessaria ma tuttora impossibile tra due popoli.

Foto Gadi Dagon
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Invitato sul palco da Kogan a rappresentare quell’altro da sé attraverso cui indagare coreuticamente la sfuggente nozione di identità, Adi Boutrous si rivela tuttavia inadatto al ruolo: vive a Tel Aviv, è cristiano, e la parola “arabo” può soltanto indicarne l’ascendenza etnica, non la sua meticcia quotidianità di rapporti e affetti, nei quali i costumi e i simboli si confondono fino a perdere la tragica rilevanza di un tempo. Kogan chiede a Boutrous di disegnargli sulla maglietta una Stella di David, così da rendere evidente al pubblico il ruolo interpretato nella coreografia: eppure quel gesto, fino a pochi anni fa carico di disprezzo, è adesso soltanto il motore di sketch farseschi. Spetterebbe alla danza il compito di delineare i significati che le identità hanno nella società israelo-palestinese, e di offrire forse una possibilità di soluzione ai conflitti: ma con una significativa torsione drammaturgica Kogan sceglie di mostrare una creazione ancora in fieri, le difficoltà e i dubbi dell’artista, senza illustrarne l’esito scenico, pacificato e facile.

Foto Gadi Dagon
Foto Gadi Dagon

I tòpoi della danza contemporanea sono presi di mira con fulminanti e paradossali battute: in un lunghissimo monologo il coreografo afferma di non apprezzare la presenza di testi nelle proprie creazioni; schernisce ‑ da docente del Metodo Gaga ‑ immaginarie e astruse tecniche pedagogiche; amplifica a dismisura l’omoerotismo di alcuni frammenti coreografici al punti da risultare beffardo. I limiti del teatro, questo sì di guerra, si dilatano al punto da abbracciare quel lembo di terra che si estende tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, tra il Mar Morto e l’Egitto. Con una ricerca scenica manifestamente scolastica, i due si prodigano in passi identici ai lati di un immaginario muro o lo superano brandendo coltelli e forchette incapaci di trasmettere qualsiasi paranoica minaccia. Il silenzioso Boutrous, energico ed esplosivo nei movimenti, condivide con l’intimista e riflessivo Kogan lo stesso, ancestrale, patrimonio gastronomico: dileggiando la fin troppo diffusa presenza di elementi culinari in tanta coreografia medio-orientale, è attorno a un piatto di hummus, offerto alla platea, che si chiude We Love Arabs. Irrisolto e imperfetto: come la realtà che racconta.

 Alessandro Iachino

visto al Teatro di Rifredi, Firenze – gennaio 2017

WE LOVE ARABS
testo e coreografia Hillel Kogan
danzatori Adi Boutrous, Hillel Kogan
musica Kazem Alsaher, W.A.Mozart
consulenti artistici Inbal Yaacobi, Rotem Tashach
distribuzione DdD – Paris

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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