Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 55 leggiamo come l’immaginario teatrale ispiri le lettere consolatorie di Seneca.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.
Insieme ai libri sull’ira, già esaminati in un precedente appuntamento, le tre lettere di consolazione di Seneca (A Marcia, Alla madre Elvia, A Polibio) costituiscono probabilmente alcune tra le prime sue prove di scrittura filosofica. Obbedendo alle regole del genere consolatorio, il filosofo cerca di riscuotere i suoi destinatari dalle sventure che la sorte o la fortuna ha riservato loro, avvalendosi ora di argomenti che sostengono che le disgrazie rappresentano solo dei mali apparenti, ora di suggerimenti per sopportarle o ridimensionarle degnamente.
Il dato che qui interessa rilevare è che, nel comporre le sue tre epistole, Seneca lascia intravedere di essersi ispirato all’immaginario teatrale. Per la precisione, di aver tratto spunto dal motivo di ispirazione cinico-stoico della vita come una messa in scena, allestita dalla fortuna capricciosa.
Il documento più esplicito è la lettera A Marcia, che tenta di consolare quest’ultima dal dolore per la perdita del figlio. Seneca paragona chiaramente, infatti, nel capitolo 10, la vicenda della donna a una «scena» arredata da mobili, che col passare del tempo sono rimossi dal palcoscenico e restituiti al loro legittimo affittuario. Il figlio di Marcia faceva parte di questa mobilia, che la fortuna aveva dato “in affitto” alla madre insieme a molte altre cose (ricchezza, potere, ecc.) e che volle fosse restituito per primo. Proprio la constatazione della fragilità costitutiva della scena della vita induce Seneca, pertanto, a esortare la donna (e con lei il lettore) a godere finché è possibile della sua famiglia, prima che la sorte – con un lento sbadiglio – recida il legame sottile degli affetti umani.
La lettera Alla madre Elvia non contiene, invece, un riferimento chiaro e diretto alla metafora teatrale. Seneca si limita esplicitamente a negare (come accadrà pure nell’epistola A Polibio) che gli spettacoli possono essere il balsamo che sua madre può usare per sopportare l’esilio del figlio in Corsica, voluto dall’imperatore Claudio. Tuttavia, l’asserzione che i falsi beni dati dalla fortuna sono coperti con un «belletto appariscente e ingannevole» (specioso ac deceptorio fuco) è una probabile allusione al trucco della maschera teatrale. La prova è che belletto (fucus) sarà il termine che Seneca userà, nella lettera 26 delle Lettere a Lucilio, per indicare l’artificio di chi allestisce un mimo o una farsa. Si può perciò dedurre che, nella consolazione alla madre, il filosofo dichiari che l’esilio è un evento indifferente, ma mascherato da male dalla fortuna. La cura dal dolore sarà rappresentato, dunque, per usare le parole che Seneca impiegherà di nuovo nelle Lettere a Lucilio (= epistola 24), dallo spogliare la sventura dalla sua maschera tragica, mostrando che dietro di essa non c’è nulla di davvero temibile.
Infine, esplicito come quello dell’epistola A Marcia, ma di diversa natura, è l’immaginario teatrale della lettera A Polibio, liberto e consigliere dell’imperatore Claudio. Seneca invita il destinatario a dimenticare la morte del fratello col dedicarsi con coraggio al ruolo che la fortuna gli ha assegnato nella scena della vita: quello del protagonista che aiuta l’umanità e non può permettersi di abbandonarsi al suo dolore, se vuole assolvere a un tale importante compito. Scritta in teoria a fini consolatori, questa argomentazione costituisce nei fatti un pretesto per chiedere successivamente a Polibio di intercedere presso Claudio, chiedendogli di cancellare la condanna all’esilio in Corsica. Seneca chiede, insomma, che tra le gesta teatrali che il Polibio-protagonista deve mettere in scena è il suo ritorno in patria, che l’umanità intera vedrà con ammirazione e partecipazione.
Vale qui sottolineare, incidentalmente e a mo’ di conclusione, che la contraddizione tra l’asserzione dell’epistola Alla madre Elvia che l’esilio sia un indifferente mascherato da male e la richiesta della cancellazione di questo nella lettera A Polibio è lampante. L’incoerenza nella condotta di Seneca è mitigata, ad ogni modo, dal fatto che egli dichiarava altrove, ossia nel trattato Sulla vita beata, di essere ancora distante dalla saggezza e, dunque, confessava sinceramente di essere prono all’errore. La richiesta della lettera A Polibio costituì un momento di debolezza di un uomo che era e rimane comunque un grande scrittore, un filosofo di eccezione e un autore capace di avvalersi proficuamente dell’immaginario teatrale, per contribuire almeno un poco alla cura delle sofferenze umane.
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Quale che siano, o Marcia, tutti questi beni avventizi che ci rifulgono attorno, i figli, gli onori, le ricchezze, gli atrii spaziosi e i vestiboli zeppi di clienti esclusi dall’udienza, la moglie nobile o bella e tutte le altre cose, appese al filo d’una sorte incerta e mutevole, sono magnificenze non nostre: le abbiamo a prestito. Di tutto questo, niente è regalato. La scena è arredata con mobili raccogliticci che debbono tornare ai loro padroni: alcuni saranno restituiti il primo giorno, altri il secondo, ben pochi rimarranno fino all’ultimo. (…) Dobbiamo ripetere continuamente a noi stessi che le cose vanno amate, ben sapendo che ci verranno meno, anzi, che cominciano già a mancarci: possiedi tutto ciò che la fortuna ti ha dato, come un bene non coperto da nessuna malleveria. Prendete piacere dai vostri figli, e subito, e a vostra volta, fatevi godere da loro, bevete la gioia fino all’ultima stilla; nessuna promessa arriva a stanotte. Anzi, vi ho dato una scadenza troppo lunga: non vi è garantita un’ora. Bisogna far presto, l’inseguitore ci fiata sul collo: presto questa compagnia sarà dispersa, questa convivenza sarà sciolta, tra un levarsi di grida. La vita è tutta un saccheggio: miserabili, non sapete vivere fuggendo! (Seneca, A Marcia, capitolo 10, §§ 1 e 4-5)
So che ciò non è in nostro potere, perché nessun sentimento ci è schiavo, tanto meno se sgorga da un dolore: in tal caso, è indomabile e refrattario ad ogni rimedio. Talvolta lo vogliamo seppellire e tentiamo di trangugiare i gemiti, ma le lacrime sgorgano sul nostro volto, falsamente ricomposto. Tentiamo di distrarci andando a teatro o alle lotte dei gladiatori, ma proprio mentre lo spettacolo ci distrae, il minimo richiamo al nostro dolore ci sconvolge. Perciò è meglio vincerlo che ingannarlo (Seneca, Alla madre Elvia, capitolo 17, §§ 1-2)
Un pianto smodato non ti è permesso, e non è questa la sola cosa che non puoi fare: non puoi nemmeno prolungare il sonno fino a tardo mattino, o rifugiarti dal tumulto degli affari nella tranquilla quiete della campagna, o ristorare con un viaggio di piacere un fisico sfinito dal continuo accudire a compiti faticosi, o svagarti la mente con questo o quello spettacolo, o disporre la giornata a tuo piacimento. Non hai diritto a tante cose cui hanno invece diritto i più umili, i rintanati nel cantuccio: una grossa fortuna è una grossa schiavitù (Seneca, A Polibio, capitolo 6, § 4)
Io non ho mai dato credito alla fortuna, nemmeno quando sembrava voler mantenere la pace; tutti quei beni che mi accumulava attorno con grande compiacenza, denaro, cariche, successo, li ho messi in luogo donde potesse riprenderseli, senza che io me ne risentissi. Ho mantenuto una grande distanza tra le cose e me: perciò essa me le ha rubate, non strappate. L’avversità non frantuma se non chi s’è lasciato ingannare dalla prosperità. Coloro che hanno amato i suoi doni come proprietà personali e permanenti e che, per quei doni, vollero essere ammirati, giacciono a terra e piangono, poiché codeste attrattive, ingannevoli e caduche, provocano l’abbattimento degli animi vacui e puerili, ignari di qualsiasi voluttà consistente. Ma chi non s’è lasciato gonfiare dalla prosperità, non si scoraggia al mutare della situazione. Mantiene l’animo invitto contro l’una e l’altra sorte, con la fermezza già provata, poiché già quando era felice, ha sperimentato ciò che poteva servire contro l’infelicità. Perciò io ho sempre ritenuto che, dentro quelle cose che tutti desiderano, non ci fosse nessun vero bene, le ho anche trovate vuote, spalmate di belletto appariscente e ingannevole, ma prive di un contenuto corrispondente alla facciata: adesso, nelle cose che sono chiamate mali, non trovo nulla che sia tanto terribile e duro, quanto lo minacciava la credenza del volgo (Alla madre Elvia, cap. 5, §§ 4-6; traduzione leggermente modificata dal curatore)
Con coraggio, perciò, mi preparo a quel giorno in cui deposta ogni astuzia e ogni artificio, giudicherò di me stesso, se sono coraggioso solo a parole o anche nell’intimo, se sono state finzione e farsa da mimo tutte le parole arroganti che ho scagliato contro la sorte (Seneca, Lettere a Lucilio, epistola 26, § 5; traduzione leggermente modificata dal curatore)
Innanzitutto ricordati di spogliare le pene dal tumulto che li accompagna e di esaminare in che cosa ciascuna realmente consista: scoprirai che in esse non c’è niente di terribile, eccetto il timore che suscitano. Ciò che vedi succedere ai fanciulli, succede anche a noi che siamo solo dei fanciulli un po’ più grandi: quando vedono mascherate le persone che amano e con le quali hanno una consuetudine di giochi e di vita, si spaventano: anche alle cose, come agli uomini, bisogna togliere la maschera e restituire loro il vero aspetto (Seneca, Lettere a Lucilio, epistola 24, §§ 12-13)
C’è anche un dato di fatto che può trattenerti dall’eccedere nel pianto: renditi conto che nessuna tua azione può rimanere nascosta. Tutti sono unanimi nel riconoscerti il ruolo di protagonista: tu devi interpretarlo degnamente. Attorno a te si stringe tutta una ressa di persone che s’associano al tuo dolore, ma che, nello stesso tempo scandagliano il tuo animo per misurarne la capacità di resistenza e si chiedono se tu sei soltanto un abile coglitore di occasioni favorevoli o se hai anche la forza di sopportare virilmente le avversità; spiano persino il tuo sguardo. (…) Dopo queste considerazioni, eccoti ora dei rimedi più agevoli. Quando vorrai dimenticare tutto, pensa a Cesare, valuta la dedizione e l’operosità che gli devi in cambio della sua benevolenza (Seneca, A Polibio, capitolo 6, § 1, e capitolo 7, § 1)
Allontana le mani da lui [scil. l’imperatore], o Fortuna e, nei suoi riguardi, non mostrarti potente, se non intervenendo a suo favore. Lascia che egli medichi questa umanità, ammalata e sfinita da tempo, lascia che rialzi e restauri tutto ciò che la forsennata furia del suo predecessore ha abbattuto! Brilli sempre questa stella che brillò su un mondo precipitato nel baratro e sommerso nelle tenebre! Sia il pacificatore della Germania, il conquistatore della Britannia, ripeta i trionfi di suo padre e ne aggiunga dei nuovi! Mi riprometto anch’io d’esserne spettatore, perché conosco la sua clemenza, che tiene il posto d’onore tra le sue virtù. Egli non mi ha abbattuto per non risollevarmi mai più, anzi, non mi ha neppure abbattuto, ma quando, urtato dalla sorte, stavo cadendo, mi ha sorretto, mentre precipitavo e, stendendo la sua mano, strumento della sua divina mitezza, mi ha dolcemente deposto a terra. Invocò per me il senato e non solo mi concesse la vita, ma anche la implorò a mio favore. Ora giudichi, valuti la mia causa come meglio crede; essa sia riconosciuta buona dalla sua giustizia o dichiarata tale dalla sua clemenza (Seneca, A Polibio, capitolo 13, §§ 1-3)
Tra poco, rincarerò io la dose delle vostre invettive e mi rimprovererò più difetti di quanti non credi, ma per ora mi contento di risponderti: «Non sono un saggio e, se questo può ingrassare la tua malignità, nemmeno lo sarò. Non puoi pretendere da me che io sia alla pari degli ottimi, ma che sia migliore dei malvagi. Mi basta questo: togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e rimproverare a me stesso i miei errori. Non sono ancora arrivato alla buona salute e nemmeno ci arriverò; preparo dei calmanti per la mia podagra, non una terapia, e mi accontento di sentirne diradarsi gli attacchi ed attenuarsi le fitte; ma se paragono i miei piedi ai vostri, io, debole, mi sento un corridore». Questo non lo dico di me, perché so d’essere sepolto nel fondo dei vizi, ma di chi ha già fatto qualche cosa (Seneca, Sulla vita beata, capitolo 17, §§ 3-4)
[Le opere di Seneca sono citate da Giovanni Reale (a cura di), Seneca: Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, Milano, Bompiani, 2000]
Enrico Piergiacomi