Il drammaturgo David Hare avverte il teatro di regia europeo come una minaccia per la purezza del testo classico inglese. Una polemica che può far riflettere.
Esiste una forma di censura sottile, quella avanzata dagli stessi intellettuali e artisti che non accettano di vedere certi pilastri del teatro «infettati» dalle smanie artistiche dei registi. «Infected» è, testualmente, il termine usato da Sir David Hare – pluripremiato drammaturgo inglese di fama internazionale – in un’intervista rilasciata a Jeffrey Sweet. Quest’ultimo, a sua volta drammaturgo oltre che storico del teatro e giornalista, esce ora con un libro dal titolo What Playwrights Talk About When They Talk About Writing, nel quale pone domande sul processo creativo a diversi protagonisti della letteratura teatrale anglofona.
Il 29 gennaio il domenicale inglese The Observer pubblica un articolo di Dalya Alberge in cui si polemizza su certe forti affermazioni di Hare a proposito di una presunta invasione di registi dell’Europa continentale ai danni del «teatro classico britannico». Secondo il drammaturgo, che difende quei testi sullo «stato dell’Inghilterra» (quelli cioè che problematizzano l’identità nazionale) come «la linea più forte del teatro britannico», sostiene che «oggi in Gran Bretagna si stia andando verso un teatro europeo ultra-estetico. Abbiamo tutti queste persone chiamate “theatre makers” – Dio ci aiuti, che parola! – che arrivano a fare un teatro di regia in cui si esaspera il testo classico e lo si taglia e lo si pota del superfluo. Tutta questa roba che siamo finora riusciti a trattenere sul continente sta arrivando e comincia a infettare il nostro teatro».
Il punto, secondo Hare e Sweet, è che certi allestimenti rischiano di corrompere la natura di sentinella che la drammaturgia inglese ha nei confronti dello statuto culturale britannico e della sua storia.
Preoccupanti illazioni, tali da innescare un vero e proprio dibattito tra artisti, studiosi, giornalisti. La critica di punta di The Guardian, Lyn Gardner – che oltre alla pagina di carta riempie quella elettronica di un blog molto seguito – non si fa attendere e contestualizza severamente le dichiarazioni di Hare e Sweet nel difficile clima che si respira sull’isola con la Brexit all’orizzonte, «un tempo in cui dovremmo guardare all’esterno più che all’interno». Secondo Gardner lo scambio tra Regno Unito ed Europa è stato completamente «rigenerante», non solo per «l’esplorazione comune di domande su che cosa possa essere il teatro oggi».
A quegli spettacoli in grado di definire lo «state of the nation» britannico, protetti da Hare, Gardner contrappone quelli in grado di approfondire uno «state of the world», che possono essere ben più efficaci dal punto di vista politico. E porta fior fior di esempi, che a suo parere evitano a una cultura insulare (da noi parleremmo di “provinciale”) di essiccarsi e ripetere schemi che invece, soprattutto quando un approccio multidisciplinare li incontra, «si uniscono nel celebrare la vivacità invece di farsi minacciare dalle altre forme».
Alla voce di Gardner si unisce quella di Duška Radosavljević, dramaturg, studiosa e docente slovena naturalizzata inglese, che su Exeunt pubblica un’accesa lettera aperta nella quale, dopo aver ricordato a Hare che “regista” (colui/colei che mette in scena un testo) e “theatre-maker” (una figura creativa a tutto tondo, responsabile dell’intera ideazione) sono due termini distinti e che il secondo è nato proprio in Gran Bretagna, prova a porre questioni approfondite sul teatro degli artisti citati, liquidato così ingiustamente con il termine «infezione». La lettera si chiude con l’auspicio che Hare (e Sweet, certo, ma dei due è Hare quello britannico) realizzi come l’infezione non provenga «dall’apparente intellettualismo del teatro continentale, ma dai vorticosi sentimenti di xenofobia e nazionalismo che arrivano dall’interno».
Perché riflettere su questo fatto di cronaca?
Dalle nostre parti abbiamo sempre assistito a singoli spettacoli “problematici”. Magari aspramente criticate, ma quasi mai avvertite come un pericolo sono le più ardite sperimentazioni sul testo tentate da registi nostrani. Perché difficilmente “aggrediscono” testi cardine della nostra cultura. Se uno sberleffo a Tennessee Williams, a Shakespeare o a Fassbinder non toglie al regista la legittimità del proprio intervento, ricordiamo di aver visto diverse persone disertare Natale in Casa Cupiello, Arlecchino servitore di due padroni o La trilogia della villeggiatura per paura di vedere Eduardo De Filippo o Carlo Goldoni “violentati” dal trattamento di Antonio Latella. Ma si tratta di casi isolati.
Si è manifestato e condotto fiaccolate contro Fa’afafine di Giuliano Scarpinato o Sul concetto di volto nel figlio di Dio di Romeo Castellucci. Ma è importante notare come il cuore delle questioni sollevate dal dialogo che abbiamo raccontato in questo articolo sia nelle forme del teatro, più che nei suoi contenuti. Dalla prospettiva di una cultura come quella britannica – in cui la letteratura teatrale non ha mai smesso di evolversi e di sperimentare – l’azione del regista diventa per alcuni minacciosa, per altri questo stesso allarme ha un diretto impatto politico.
Perché l’attacco è condotto ai danni di una funzione altrimenti chiarissima: un teatro visto ancora oggi come un termometro della società, un indicatore dello “stato” in cui si trova un paese. Il nostro teatro è ancora in grado di rappresentarci?
Sergio Lo Gatto