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Sull’abbandono. Le muse orfane di Bouchard

Al Teatro Argot Studio, Paolo Zuccari dirige l’adattamento de Le muse orfane scritto da Michel Marc Bouchard. Recensione

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Parlano di compromesso, il regista Paolo Zuccari e l’attrice Antonella Attili, durante l’incontro pre spettacolo svoltosi il primo weekend di tenitura de Le muse orfane tratto dal testo di Michel Marc Bouchard e ancora in scena al Teatro Argot Studio. Compromesso e non compromissione, nessun reato quindi, nessuna colpa, quanto la scelta consapevole di scendere a patti con il personaggio, “sporcarsi” la vita con quella di un carattere, conoscerne la biografia scenica, incorporarne la viscosità emotiva e poi agirlo sul palco. Se è vero, come ci ha raccontato lo stesso Zuccari, che a stuzzicare la curiosità registica è stato proprio il corredo emotivo che innerva tutto il testo – pubblicato in italiano nei primi anni Novanta da Ubulibri – è altrettanto chiaro che a interessare l’artista romano sia stato anche e soprattutto il rischio implicito di una simile fascinazione, confermato dalla tensione psico emotiva che rende la familiarità straniata e perturbante.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Le muse orfane ha come urgenza narrativa l’abbandono, la lacerazione di un tessuto coniugale e familiare che tirandosi si è strappato e mai si è ricucito, e che ha reso afasici tentativi di personalizzazione le esistenze di quattro fratelli, i quali superati quasi tutti la soglia dei quaranta anni non hanno mai elaborato il trauma e lo fanno rivivire attraverso un gioco metateatrale di pirandelliana memoria. Caterina (Antonella Attili), Isabella (Elodie Treccani), Martina (Stefania Micheli) e Luca (Paolo Zuccari) si ritrovano dopo molti anni tutti insieme a casa di Caterina, la sorella maggiore, che vive insieme a Isabella, la più piccola, e alla quale fa da balia per la sua presunta deficienza. Una mancanza, l’ennesima, che si traduce per Isabella in afasia del linguaggio; il dolore quello profondo lo è ancora di più se non si riesce a dargli un nome: «Cosa significa?; che vuol dire?» questi gli interrogativi di Isabella rispetto a un lessico sconosciuto, parole proferite dai fratelli che per lei non trovano alcuna collocazione di senso, alcun significato. Caterina vuole l’amore e lo cerca nel letto del dottore della cittadina, Martina è la sorella lesbica e arruolata nell’esercito, Luca è l’elaborazione teatrale dell’abbandono, il personaggio che ha bisogno di rinunciare a sé per guardarsi da fuori, straniarsi indossando i vestiti della madre e mettendo in scena quel “come se” che ricostruisce la finzione di una familiarità distrutta. Poi c’è il paese, gli anni Sessanta (ce ne accorgiamo grazie alla musica diegetica ogni tanto messa su da uno dei protagonisti), il bigottismo, il pregiudizio e la noia che tutto distorce pur di creare qualcosa, smuovere il tempo e le persone. Bauli di tutti le dimensioni e colori, sedie altrettanto diverse, un giradischi, due tavoli e una finestra riempiono il perimetro della scena, la stasi e l’attesa indicata dalle sedie, il movimento e la (finta) partenza dai bauli. L’unica infatti a essersene veramente andata è la madre mentre loro sono ancora bloccati nel dolore di quell’addio. Fermi, non cresceranno. Luca, narratore di questa storia, la racconta a se stesso, la scrive, la raccoglie in un manoscritto, che dovrebbe diventare poi una pubblicazione editoriale, la legge a voce alta alle sorelle, la mette in scena; a differenza di Isabella, lui le parole le sa, ne conosce il significato ma non riesce ad allontanarsene, ricorda perfettamente quelle della lettera, dell’addio, della canzone che la mamma intonava l’ultima sera… È evidente del resto che il compromesso intimo ed emotivo, linea guida per la creazione dello spettacolo, permette agli attori di costruire perfette geometrie del dolore in cui ciascuno riesce a ricavarsi una sorta di rifugio parallelo: tutti e quattro sono sotto lo stesso tetto ma intimamente presenti a loro stessi in un altrove non definito, che curano e preservano dagli attacchi del reale.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

In equilibrio stanno gli interpreti su un crinale tendenzialmente pericoloso: cadere nel patetismo è un rischio in agguato, ma arginabile da un cast di attori in grado di interporre quella giusta e salvifica distanza tra conturbante emotività e rigorosa disciplina.
La porta in scena rimane aperta, Isabella finalmente abbandona la casa, Martina riparte, Luca e Caterina sono rimasti intorno al tavolo. Forse è vero che per sentirsi veramente liberi bisogna saper lasciare andare…

Lucia Medri

Teatro Argot Studio – febbraio 2017

LE MUSE ORFANE
di
Michel Marc Bouchard
regia
Paolo Zuccari
con
Antonella Attili
Stefania Micheli
Elodie Treccani
Paolo Zuccari

LA FABBRICA DELL’ATTORE

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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