Abbiamo visto Small Town Boy, testo e regia di Falk Richter, uno dei più acclamati artisti del teatro tedesco. Recensione dalla Comédie de Reims – Festival Scènes d’Europe.
Non ci sono molte opportunità di vedere il grande teatro europeo in Italia. Meno che mai a Roma. Cerchiamo allora di dare conto di occasioni trovate altrove, come alla Comédie de Reims, dove in occasione del festival Scènes d’Europe siamo stati incaricati dall’Union des Téâtres de l’Europe et de la Méditerranée (UTE) di condurre un workshop per il gruppo degli Young Performing Arts Lovers (YPAL), un progetto che lo stabile francese condivide con l’UTE in cofinanziamento con Europa Creativa. In soli tre giorni di visita abbiamo visto molte e diverse proposte, opere più “da camera” – come Une faible degré d’originalité di Antoine Defoort o la performance Multiverse di Louis Vanhaverbeke – e grandi produzioni come Small Town Boy di Falk Richter. Quest’ultimo, grande spettacolo in perfetto stile tedesco prodotto dal Maxim Gorki Theater di Berlino di cui Richter è stato anche direttore artistico, può contare su un’affiatata compagnia stabile, straordinariamente multietnica, della quale qui compaiono solo attori e attrici tra i 30 e i 45 anni.
Si potrebbe, di primo acchito, definire questo linguaggio post-drammatico, seguendo il celebre testo di Hans-Thies Lehmann che solo ora (a distanza di vent’anni e con tutta questa acqua passata sotto ai ponti) verrà tradotto in italiano e pubblicato da Cue Press. Ma nel 2009 Anne Monfort (qui anche traduttrice), in un saggio dal titolo Après le postdramatique, proponeva il termine neodrammatico per definire quella «teatralità dove il testo, i personaggi e la finzione sono alla base del lavoro scenico, anche se il testo è destrutturato, i personaggi dislocati, e la finzione messa in dubbio». Proprio Richter, insieme ad Anje Hilling e Joël Pommerat, era portato come esempio.
In opere come questa, infatti, vorticose dal punto di vista testuale, dinamiche da quello della regia ed esplosive nella recitazione che con agilità si muove fra interpretazione di un personaggio e commento diretto della realtà, è sempre difficile individuare un unico nucleo tematico o estetico. Le lingue si confondono, si parla tedesco, inglese, francese e russo; il fondale ospita cartelli che annunciano le scene e brevi didascalie; non c’è punto di fuga; sul palco rotante orbitano strumenti musicali da imbracciare e suonare per accompagnare il canto al microfono di uno degli interpreti, quasi come in un musical frammentato, non sempre coerente, specchio di individualità piene di contrasti.
Messa alla prova da continui cambi di registro è la vicenda di un gruppo di giovani alle prese con la scoperta, il rifiuto e la gestione della propria omosessualità in un mondo che – a dispetto del grado di apertura che ci si aspetta da Kreutzberg, l’emancipato quartiere hipster di Berlino – fatalmente rifiuta il contatto con l’alterità. Così, in un prologo direttamente rivolto agli spettatori, due personaggi/coro ora raccontano la propria vicenda e ora incarnano quella di altri; gli scontri su un coming out perennemente rimandato e gli incontri sessuali sovrappongono al primo piano di finzione un secondo in cui gli stessi personaggi ne interpretano altri, seguendo lo script di un autobiografico film generazionale.
Nello scivolo finale della seconda ora di spettacolo, l’ordine naturale degli eventi viene sempre più spesso interrotto da esibizioni musicali, fino a esplodere in una sessione apertamente politica, in cui il palco si riempie di foto di Vladimir Putin, Angela Merkel, Silvio Berlusconi e Anna Netrebko, a diversi gradi responsabili non tanto di omofobia diretta, ma di una più ampia degenerazione morale e culturale. Ed è così che l’apologo diventa simulacro di una visione del mondo, chiamando in causa la coscienza sociale del «gregge» centro-europeo.
In questo frenetico pastiche c’è spazio per la commozione e la risata, per l’indignazione e la pietà, mentre tutti – o quasi – gli elementi della scena partecipano alla costruzione di una teatralità spietatamente diretta e fredda, però furba a sufficienza da nutrire il pubblico di una generosa dose di intrattenimento. Ed è pur vero, per dar ragione a Monfort, che nel testo e nella sua forma pirotecnica si anima il fuoco dei ragionamenti: omosessualità e omofobia, certo, ma ancor di più una intensa e poetica riflessione sulle sicurezze dell’amore, sul rapporto tra pubblico e privato e tra aspettativa e fuga, in questo oggi che tramuta anche una capitale europea in un piccolo paesino fatto di voci sotterranee e di schifosa omertà borghese. E allora torna in mente un verso di Song to the Siren di Tim Buckley, che precede uno straziante monologo: «A galla da chissà quanto in un oceano senza navi, ho fatto del mio meglio per sorridere».
Sergio Lo Gatto
Comédie de Reims – febbraio 2017
SMALL TOWN BOY
un progetto di Falk Richter
testo e regia Falk Richter
con Mehmet Ateşçi, Niels bormann, Lea draeger, Aleksandar Radenković, Thomas Wodianka
scene e costumi Katrin Hoffmann
musica Matthias Grubel
video Esra Rotthoff
luci Carsten Sander
dramaturg Jens Hillje, Daniel Richter
traduzione Anne Monfort