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Silvio Orlando, tra le dita i Lacci di Starnone

Silvio Orlando protagonista insieme a Vanessa Scalera di Lacci scritto da Domenico Starnone e diretto da Armando Pugliese, ora in scena al Teatro Piccolo Eliseo di Roma. Recensione

Foto Nevio Vitali
Foto Nevio Vitali

Tra le dita stretti e tirati, fatti passare tra le falangi che piegate li curvano per poi stenderli di nuovo e fermarli: i lacci trattengono e lasciano, stringono e allentano la presa, circoscrivono una piccola o grande porzione di spazio, anche di tempo, e delineandola sembrano tracciarne i contorni, tenerla unita a quel nodo che appare indissolubile e fermo. E invece poi si allenta e, aprendosi in maniera scomposta, si allarga, scivola piano e l’unione di prima, non c’è più.
Torna a teatro la letteratura di Domenico Starnone, già incontrato in queste pagine per l’adattamento del celebre romanzo, La scuola, diventato prima film e poi spettacolo teatrale; e torna in scena anche Silvio Orlando, l’attore che con la sua sensibilità autenticamente goffa è rappresentativo di questa scrittura dedita ad aggrovigliarsi nell’intricato tessuto di relazioni, la cui densità complessa e inafferrabile resta comunque primaria urgenza, tanto per il testo letterario che scenico. È di questi giorni la lunga tenitura di Lacci al Teatro Piccolo Eliseo per la regia di Armando Pugliese, la quale ruota attorno alle distanze e alle derive generazionali, al tempo che scorrendo muta le persone e i rapporti, restituendone sul palco quei tratti psicologici semmai contraddittori, un po’ ingenui ma indicativi di uno sconquasso dei sentimenti che le note di regia legano di certo a una tradizione ma, «proprio perché ci muoviamo in ambito borghese, non si tratta di una tragedia generazionale, ma di un dramma generazionale, quello sì».

Le pareti di una casa, che c’era una volta, riempiono lo spazio scenico nell’allestimento di Roberto Crea; sono incolori, sembrano di gesso grezzo, quasi a trasmettere alla sola vista una sensazione di freddo: una caverna dove l’emotività di una volta si è cristallizzata e poi svuotata del sentimento che l’aveva riempita. «Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie», è Vanessa Scalera a rompere il silenzio nei panni di Vanda: la voce risolutamente pacata, un po’ roca, dalle grinze stanche e affaticate forse dal troppo pianto, dalle urla furiose e lancinanti scagliate proprio contro quelle mura casalinghe.
Legge una delle tante, troppe lettere, inviate ad Aldo, Silvio Orlando, durante i suoi quattro anni di assenza, quando lui decise di sciogliere quei lacci logori di un matrimonio prematuro subito invecchiato, decidendo di continuare a vivere parallelamente in un tempo diverso, questo sì pieno di leggerezza.

Foto di Massimiliano Bonatti
Foto di Massimiliano Bonatti

Senza alcuna riserva, spiccano sul resto del cast Orlando e Scalera, le due punte attoriali. Il primo, da anni noto al pubblico sia teatrale che cinematografico e televisivo; lei, attrice già conosciuta negli spazi off romani e che, con sincera stima, incontriamo ora in questa occasione in cui ci dà nuovamente prova di grande e rigorosa coerenza scenica e attoriale.
Cinque sono i «movimenti» attraverso i quali Pugliese ha pensato di rendere scenicamente la complessità verbosa e psicologica di questo testo, la quale a tratti, pesa sullo spettatore durante le quasi due ore di spettacolo. Cinque tempi del racconto distinti che procedono avanti e indietro nella storia di Aldo e Vanda, del loro amico di vecchia data (Roberto Nobile) e dei loro due figli (Sergio Romano e Maria Laura Rondanini), uniti insieme registicamente da un unico sottotesto: «Il contenuto del romanzo mi ha suggerito l’idea di una sinfonia del dolore perché questa storia ci parla di un carico di sofferenza che da una generazione si proietta su quella successiva con il suo bagaglio di errori, infingimenti, viltà, abbandoni, dolore appunto». Quella sofferta finzione di una casa tenuta ancora precariamente in piedi e che saranno proprio i due figli a far crollare, buttando giù una formalità fatta di menzogne e apparenza.

Rientrando a pieno titolo nella tradizione del dramma familiare, Starnone adatta egli stesso il testo letterario alla drammaturgia scenica, operazione forse un po’ troppo fedele alla pagina scritta che pesa sull’andamento generale, andando a gravare sui dialoghi e le azioni dei personaggi. La regia di Pugliese, supportata inoltre dai due protagonisti, pur rimanendo nell’ambito di una definizione e riconoscibilità di genere, si presenta al pubblico nel suo modesto equilibrio di toni, a ricreare una struttura fissa certo, ma attraversata da quelle imprevedibili variazioni sentimentali di cui è intriso il testo originale.
I lacci si sciolgono ma stanno lì, inermi a terra in attesa, forse, di essere ricomposti. Senza pensare alle conseguenze.

Lucia Medri

Teatro Piccolo Eliseo – gennaio 2016

LACCI
di
Domenico Starnone
tratto da Lacci romanzo di Domenico Starnone edito da Einaudi
con Silvio Orlando
e con in ordine alfabetico Roberto Nobile, Sergio Romano, Maria Laura Rondanini, Vanessa Scalera e Giacomo de Cataldo
regia Armando Pugliese
scene Roberto Crea
musiche di Stefano Mainetti
costumi Silvia Polidori
luci Gaetano La Mela

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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