Sandro Lombardi e Massimo Verdastro in L’apparenza inganna, testo di Thomas Bernhard già messo in scena con la regia di Federico Tiezzi nel 2000. Recensione
Succede a volte che il pubblico abbia la possibilità di rivedere messinscene allestite originariamente decenni prima. È capitato di recente con l’Orestea (monca) di Romeo Castellucci all’ultimo Romaeuropa Festival, e in maniera più silente al Teatro India di Roma la scorsa settimana con il riallestimento di L’apparenza inganna, testo in due atti di Thomas Bernhard del 1983. Se l’Orestea di Castellucci rappresentò nel 1995 un punto di svolta per l’avanguardia barocca della Socìetas, la messinscena degli ex Magazzini di Lombardi/Tiezzi fu nel 2000 uno dei definitivi segnali di superamento dello sperimentalismo più spinto da parte della compagnia fiorentina.
“La sorpresa è stata quella di ritrovarsi nell’età giusta dei personaggi […] e non è solo un fatto tecnico, la tematica legata al tormento del non essere più giovani purtroppo la si conosce” risponde Sandro Lombardi a Michele Pascarella che lo intervista su Gagarin Magazine a proposito del significato di questa ripresa.
Le cronache dell’epoca (prendiamo in considerazione la recensione del 2001 di Drammaturgia.it) raccontano di uno spettacolo allestito nelle “retrovie” del Teatro della Pergola, che sfruttava i piccoli spazi e una certa prossimità tra pubblico e scena. Situazione che probabilmente è stata cercata anche all’India, dove ha funzionato l’idea di far spostare il pubblico da una sala all’altra, facendogli così simbolicamente ripercorrere il viaggio dei due protagonisti effettuato per farsi visita, ma agendo meno sulla prossimità con la scena, una vicinanza per pochi spettatori sistemati su dei divanetti adiacenti al proscenio o ai lati dello spazio d’azione.
Come spesso accade in Bernhard il teatro è al centro del discorso nella sua relazione quotidiana con la società novecentesca in cui è immerso: è un testo per due personaggi, fratelli, entrambi pensionati. Il primo è un anziano giocoliere, Karl, colto e intento a passare le giornate leggendo Voltaire; con i suoi numeri divenne famoso in Francia rinnovando la propria arte. Lombardi incarna questo carattere strafottente, sicuro di sé, sempre pronto a far mostra delle proprie capacità di lettura della vita, ma nonostante questo talmente solo da dover parlare con un canarino. L’altro, Robert, è un attore di prosa che Massimo Verdastro disegna con grazia mostrandone la sconfitta: qualche successo nazionale di cui andar fiero, il Tasso di Goethe rimasto negli annali delle cronache per decenni e poco altro. La popolarità tanto sbandierata dal fratello giocoliere non ha mai segnato, con costanza, la sua vita, ferita ora da un altro sogno mancato, quel Lear da interpretare a coronamento della carriera e che invece aleggia come un fantasma sempre più incorporeo.
I due fratelli si fanno visita un paio di volte a settimana, martedì e giovedì, due giorni che entrambi non sopportano; condividono la conoscenza di un terzo personaggio che in scena non apparirà mai, è la moglie morta del primo, sulla quale si sussurra a denti neanche troppo stretti di una possibile relazione con il secondo. Mathilde è assente, ma fa parte della vita presente dei due, del mobilio che Karl non vuole mandare all’asta, delle cassapanche piene di vestiti di lei, dei ricordi, della nostalgia. Tra i due un’ulteriore nota acidula è il testamento della donna grazie al quale Robert diventerebbe proprietario di una casa al mare.
Relativamente alla drammaturgia, c’è da precisare che Sandro Lombardi ha lavorato – è lui stesso ad affermarlo nell’intervista già menzionata – per riequilibrare il peso drammaturgico dei personaggi. L’originale era sostanzialmente scritto per Minetti (il famoso attore per cui Bernhard pensò questo testo, sviluppandolo oltre il semplice omaggio) che interpretava Karl, “non mi interessava fare uno spettacolo da mattatore” ammette Lombardi. Dunque quello a cui Lombardi e Tiezzi arrivano, ricucendo il testo e immaginando una messinscena semplice ma esemplare della visione, è un dualismo molto pronunciato, lontano dall’originale andato in scena allo Schauspielhaus di Bochum con la regia di Claus Peyman, versione in cui solo il primo atto è un lungo monologo di Karl/Minetti che supera l’ora e mezza.
È un lavoro insomma fatto di trame invisibili, di una costruzione registica e drammaturgica che potrebbe sembrare poco coraggiosa ma che a ben vedere entra nella struttura stessa della pièce. Nonostante la lontananza cronologica con cui l’opera si fa schermo, nonostante la sua incontrovertibile appartenenza a un mondo che non esiste più – e che qui da noi forse non è mai è esistito – la scrittura di Bernhard si impone aprendo nel finto chiacchiericcio squarci di riflessione e poesia: spesso si è scritto di quanto l’autore austriaco odiasse il teatro e per questo di quanto lo amasse; infatti basterebbe invertire il senso di certe battute per capire come la sua indagine cerchi la vita tra le crepe del mestiere artistico. Karl si prende gioco del fratello affermando più volte la superiorità della propria arte intesa come qualcosa di puro rispetto al lavoro attoriale, eppure è Robert nella sua piccolezza a rapire i sentimenti del pubblico: è il volto malinconico di Verdastro, come un vecchio Shylock sconfitto dalla vita, a evocare la laica misericordia di un crepuscolo quotidiano.
Andrea Pocosgnich
Visto al Teatro India, Roma – febbraio 2017
L’APPARENZA INGANNA
di Thomas Bernhard
traduzione Roberto Menin
drammaturgia Sandro Lombardi
regia Federico Tiezzi
con Sandro Lombardi e Massimo Verdastro
scene Gregorio Zurla
costumi Giovanna Buzzi
produzione Associazione Teatrale Pistoiese, Compagnia Lombardi-Tiezzi