In prima nazionale al Teatro Carignano di Torino abbiamo visto “Hamlet”, un Progetto Internazionale proposto dallo Stabile piemontese. Recensione.
«L’Amleto mi ha sempre interessato per il motivo seguente: sappiamo che esso era la rielaborazione d’un dramma più antico, scritto da un certo Thomas Kyd e rappresentato con grande successo qualche anno prima. L’argomento era una specie di ripulitura delle stalle di Augia. L’eroe, Amleto, faceva piazza pulita della propria famiglia; e pare lo facesse senza la minima inibizione. Tutto sembrava impostato in funzione dell’ultimo atto. […] In tempi successivi chiameremo questo dramma per antropofagi». Così Bertolt Brecht – ne L’acquisto dell’ottone – guarda al dramma di Elsinore.
L’ibridazione di questi due autori costituisce il bizzarro esperimento del gruppo inglese Tiger Lillies, insieme alla compagnia danese Theatre Republique, per la regia di Martin Tulinius. Lo spettacolo Hamlet, nell’arco di due ore e mezza, ricostruisce le note vicende shakespeariane in un quadro dalle tinte accese, attraversato da proiezioni video, scenografie mobili e la musicalità costante, live, di Tiger Lillies. L’interpretazione (in inglese con sopratitoli in Italiano) di Morten Christensen, Andreane Leclerc, Andrea Vagn Jensen, Zlatko Buric, Pelle Kann viene contrappuntata, e a volte sopraffatta, dall’incursione sonora di Martyn Jaques, Adrian Stout, Jonas Goefrey Golland che, come irriverenti narratori brechtiani, con fisarmonica, contrabbasso e batteria commentano e straniano le vicende che si susseguono sulla scena.
I fatti dell’Amleto vengono condensati in una sintesi per tappe di senso – lo spettro del vecchio re defunto, il controverso matrimonio tra Gertrude e Claudio, il tragico suicidio di Ofelia, Rosencrantz e Guildenstern come marionette sibilline, le ambizioni e le tensioni di Amleto – e immersi in un’atmosfera suburbana dark, in cui i cantori, truccati da giullari, si destreggiano come musici di strada, tra prostitute, borseggiatori e magnaccia, come nell’universo umano dell’Opera da tre soldi di Brecht. L’impianto scenico è funzionale a restituire con forza un Amleto borderline, dissonante e dissacratorio il cui complesso di Edipo si risolve in scena nello stupro di Gertrude. Le canzoni dell’album Hamlet del gruppo inglese risultano perfettamente consonanti e i loro testi graffianti, ironici, violenti, completano in modo eccentrico la commistione dei due autori. Sembra affiorare un taglio esistenziale: di fronte al dramma dell’avvicendarsi tragico degli eventi Amleto afferma di stare «qui come una puttana a disfare il mio corpo a parole».
“Hamlet” di fatto è un cabaret, un susseguirsi ritmato di scene e parole, canzoni e proiezioni. L’operazione nel complesso risulta efficace, le canzoni del Tiger Lillies conferiscono un valore notevole e l’impianto scenico interloquisce con una rappresentazione bizzarra, una sorta di vaudeville moderno, che seduce il pubblico. Da un punto di vista registico tuttavia non tutte le scelte convincono, ad esempio Ofelia che si snoda ginnica non sembra particolarmente felice, e in generale la voce attorale non sembra calibrata sul medesimo tenore di pregio e originalità della sua controparte musicale.
Giulia Muroni
Teatro Carignano di Torino
HAMLET
da William Shakespeare
con Morten Christensen, Andreane Leclerc, Andrea Vagn Jensen, Zlatko Buric, Pelle Kann
narratori birichini Martyn Jaques, Adrian Stout e Jonas Golland
regia e scene Martin Tulinius
in collaborazione con Martyn Jaques (cantante direttore musicale The Tiger Lillies) e Hans Christian Gimbel
Theatre Republique