Filippo Timi, in tournée con Una casa di Bambola di Henrik Ibsen firmato da Andrée Ruth Shammah, si è soffermato con noi sui riferimenti del mestiere d’attore, sulla relazione con il pubblico, sulle proprie passioni da spettatore. Intervista.
Rosso. Oro. Sono i colori delle file di camerini, dietro al palco del Teatro Argentina. Filippo Timi era giù in strada, stretto nel cappotto grigio, mi dice di andare su perché stiamo più tranquilli. Quando entriamo – io e la preziosa Amelia – si toglie il cappotto, si mette comodo, cambia espressione e si rilassa, sembra di colpo più felice e disteso mentre mi dice: «Ma sai che questo è stato il camerino di Carmelo Bene? Mi sento un pezzente a stare qui, mamma mia…».
Nei corridoi tutti lo aspettavano, c’è spettacolo alle 19 e non manca poi molto, ma lui sembra calmo ora, come se in camerino non potesse più succedergli niente e tutto avrà a che fare con il teatro. Ma, questo, lo capirò solo qualche minuto dopo. Di prima mi rimane soltanto l’espressione di un volto, due occhi vivi e senza più l’inganno della posa che, dopo aver detto, continuano inesorabili a dirmi: «Ma sai che questo è stato il camerino di Carmelo Bene?».
Quali sono i tuoi punti di riferimento per il mestiere di attore?
Lo specchio. No, non è così banale. Ho proprio bisogno dello specchio del camerino, è lì che trovo l’unica cosa di cui ho davvero bisogno: il coraggio. Per un attore la vera missione è trovarsi dentro l’uomo, un altro uomo, il personaggio. È soltanto nella solitudine di quel camerino che si smette la propria veste e se ne trova un’altra, aderente all’essere richiamato, richiesto dall’interpretazione.
Eppure il personaggio, “l’altro uomo”, nasce spesso in tua assenza, nasce in un testo di riferimento che è libro chiuso. Qual è il tuo approccio al testo? Come procedi a dargli vita, corpo?
Se il personaggio prende corpo, io so chiaramente che quel corpo è il mio. Ma proprio per questo ho bisogno di ridurlo a una forma umana, ho bisogno di vederlo in situazioni imbarazzanti ma concrete, come se dovessi vedere Amleto quando è in bagno a fare le sue cose, per un esempio. Solo allora, quando riesco a demitizzare la grandiosità di ciò che è bloccato nella pagina, nella storia, allora posso dire di aver fatto il primo passo del mio lavoro d’attore: umanizzare è il solo modo di rendere propria (e quindi di tutti) la materia teatrale.
Questo è il solo modo di “mettersi in scena”, perché il teatro brucia, consuma il presente. La scommessa che un attore fa è di vita o di morte, è all’ultimo sangue. Altrimenti non vale la partita e il pubblico non se ne accorge che il gioco è – deve essere – truccato.
Tu sei un attore, un regista, fai teatro, cinema d’autore, ma allo stesso tempo hai pubblicato libri e portato in scena tuoi monologhi. Hai sempre avuto questa forma di eclettismo?
Lo sono stato fin da bambino, innamorato di Cocteau, di Leonardo da Vinci, di Pasolini, di tutte le figure che non si fermavano a essere una cosa soltanto. Allora ero giudicato pesantemente, perché arrivavo con troppa energia e questo non era ben visto. Ho imparato poi a non abbattermi e, proprio grazie al teatro, a trasformare l’energia in creatività. Ma che mi pubblicassero un libro non l’avrei davvero mai pensato…
A proposito di Una casa di bambola: che cosa emerge per te con maggiore evidenza dello scontro tra maschile e femminile, che è un po’ il tema classico di quest’opera ibseniana?
Ascoltando le reazioni del pubblico mi accorgo che, per quanto io provi a scalzare totalmente la figura di un marito padrone perché non fa parte della lettura che ne fa la regista, le donne stanno in ogni caso dalla parte di Nora; ognuno dei due generi, cioè, interpreta in maniera netta e tende a salvaguardare il proprio, non si riesce ad andare oltre e a scorgere l’esigenza dell’altro nella relazione. È un conflitto insanabile, ma proprio per questo in equilibrio. E quindi, come in Gocce d’acqua su pietre roventi di Fassbinder, sano e sempre aperto.
Fin dai tuoi primi lavori si è manifestato un rapporto diretto con il pubblico. Come si è modificato nel tempo e come invece modifica il tuo stare in scena in corso d’opera?
Alza il tiro. Più c‘è affetto, più si alzano le aspettative. Maria Callas diceva che se hai avuto successo con la prima opera, la seconda deve averne ancora di più per dimostrare che ne abbia avuto, perché se con la prima è andata bene, lo stesso successo sembrerà sempre di meno. Io per riuscire in questo processo punto sull’onestà, per la quale devo ringraziare Batman.
Batman?
Sì, stavo vedendo il film e d’improvviso ho riconosciuto la voce di Claudio Santamaria, che conosco bene, quindi per metà film ho visto lui al posto del supereroe. Fatto è che a un certo punto sento Claudio che vestito con la tuta e il mantello mi dice: «A volte la verità non basta». La frase mi è rimasta attaccata addosso, perché ogni verità è soggettiva. Anche in scena l’onestà è qualcosa che sta prima e non la puoi difendere se non c’è: l’onestà è la tua verità senza arroganza.
Hai molti anni di carriera, come attore ma anche come spettatore teatrale, ché l’osservazione per un attore è la prima buona regola. Quale spettacolo ti ha colpito in modo particolare e consideri memorabile?
Per primi gli spettacoli in cui sono conquistato da un attore in particolare. Quando ad esempio ho visto Marco Foschi nel Pilade di Pasolini, con la regia di Antonio Latella, mi sono appassionato nonostante ci fosse tanto testo e quindi meno possibilità di lasciar andare la fantasia. Poi il Misura per misura di Carlo Cecchi, in cui Arturo Cirillo faceva due ruoli opposti con la stessa credibilità. Ma se proprio devo dirti, io sono innamorato, sono anzi schiavo della Socìetas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci; amerei vedere un film firmato da lui. Mi ricorderò sempre una scena del Tristano e Isotta visto alla Biennale: c’è un cavallo in scena, gli attori lo masturbano, poi come dei chimici portano lo sperma sotto un microscopio e l’immagine viene proiettata su uno schermo; ci sono milioni di spermatozoi, quindi vita; in quel momento uno degli attori, cantando, versa nella provetta una goccia di cianuro e tu vedi live la morte: uno sterminio! Solo un autore di tale altezza poetica può concepire una scena del genere.
E poi, poi va be’, per uno come me Carmelo Bene è Einstein: ha scoperto la formula segreta del teatro e ha avuto la fortuna di avere il corpo, l’anima, la voce e l’astuzia per suonarli, suonarsi come universo. E ce l’ha fatta. A proposito, ma te l’ho detto che questo è stato il suo camerino?
Simone Nebbia
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