Franco Però porta in scena Das Vermächtnis, commedia di Schnitzler inedita in Italia, e ne fa spazio d’indagine dell’ipocrisia sociale. Recensione.
Nominare Arthur Schnitzler suggerisce il ricordo di Doppio sogno, il racconto del 1926 che esplora gli oscuri smarrimenti dentro il ménage di una giovane coppia e che aveva ispirato la perturbante ultima opera di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut (1999). Ma la produzione del romanziere e drammaturgo austriaco è molto vasta e, apparentemente, ricca di sotterranee suggestioni da attualizzare: Franco Però va a recuperare una commedia del 1898, inedita in Italia, Das Vermächtnis – letteralmente L’eredità – che, nella traduzione di Ippolito Pizzetti, diventa Scandalo, vista al Teatro Morlacchi di Perugia.
La scatola scenica – un elegante interno viennese di fine Ottocento – ha una geometria e un nitore pittorico che ricordano il minimalismo di Vilhelm Hammershøi ma ne diluscono, con chiarore volumetrico, il muto simbolismo. Molto luminosa nel primo atto (luce che si riversa sul mobilio chiaro, due finestre sullo sfondo a segnare la profondità dello spazio, le persiane sempre rigate di sole), diventa, nel secondo atto, scura e materica: le finestre scompaiono e l’azione si staglia su uno sfondo nero, appena alterato da qualche pezzo di arredo.
Lo scandalo che fa irruzione nel salotto del professor Losatti è la rivelazione dell’inatteso: suo figlio Hugo, in punto di morte per una banale caduta da cavallo, confessa un’amante di bassa estrazione e un figlio di cinque anni, chiedendo alla famiglia di prendersi cura di loro.
L’atmosfera lieve di chiacchiericci e mormorii, forse già fremente di qualche inquietudine, è quindi frantumata dalla comparsa della giovane Toni (che ha la fisicità flessuosa e la delicatezza selvatica di Astrid Meloni). Leggendo le note di regia si coglie una volontà di utilizzare Toni come immagine archetipica (e quindi molto attualizzabile, in questi tempi di riflessione sull’accoglienza) della straniera che spezza, con la sola innocente presenza, gli equilibri che le preesistono, portando a emersione la natura ingannevole e ambigua dei comportamenti sociali. Tutti i personaggi, alle prese con questa eredità complessa, sviluppano sentimenti contrastanti, assumono posizioni precise e subito dopo le rigettano, si misurano con le reazioni del milieu e, soprattutto, ne dibattono senza sosta: in questa saturazione dialogica, a tratti insistenza esplicativa, si estingue l’intensità del processo osservato.
Se l’ipocrisia sociale è un sentimento che può essere indagato con l’ironia che il regista inserisce per innesti (ai quali la platea risponde con gratitudine) e se la disgregazione dolorosa del mondo mitteleuropeo sulla soglia del Novecento è sempre un terreno di analisi fertile e interessante, in questo caso la scrittura risente di troppi cedimenti alla stereotipia: i bifrontismi di tutti, il binomio repulsione-devozione esplorato con sommarietà, il ripetuto interrogativo su che cosa l’incanto esercitato da Toni rappresenti, se la felicità o il peccato, il continuo posizionarsi dei personaggi su dei crinali morali di cui viene puntualmente indicata la cedevolezza, l’insieme costruisce una partitura che, nella propria ambizione di polifonia, rimanda a una profondità allusa ma costantemente mancata.
Gli attori sono agili ed espressivi dentro ruoli dai margini tagliati con troppa nettezza: la vedovanza di Emma – unica voce femminile a raccogliere le ambiguità emozionali, in un ambiente regolato da logiche latamente patriarcali – è restituita in modo efficace da una Stefania Rocca percettiva ma aderente a un tratteggio ancora troppo semplice.
Lo spettacolo vorrebbe essere un oggetto prismatico, attraverso il quale guardare alla contraddizione, ma si rivela un catalogo, pure accurato, di dinamiche umane espresso con moduli chiari che però non sostengono la complessità crescente della narrazione.
Rimane il dubbio che in una così bella e precisa evocazione estetica – le luci, di Pasquale Mari, per tutto il tempo scalpellano o levigano i volumi dei volti e delle vesti, segnano i passaggi con le variazioni di intensità e calore – questa esteriorità possa rispondere a una consapevole volontà di riprodurre, in una semplificazione dell’atmosfera storica, quella stessa vacuità indagata dall’autore.
Sul finale, l’incredibile utilizzo della luce (le tenebre si sollevano sulla scena e la inghiottono, visibilizzando il dolore) e l’architettura dei movimenti con cui gli attori si posizionano per ricevere gli applausi del pubblico rivelano una affilata intelligenza registica che, nel corso dello spettacolo, è solo intuibile.
Ilaria Rossini
Teatro Morlacchi, Perugia – gennaio 2017
SCANDALO
di Arthur Schnitzler
traduzione Ippolito Pizzetti
regia Franco Però
con Stefania Rocca, Franco Castellano
e con la Comp. del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia: Filippo Borghi, Adriano Braidotti, Federica De Benedittis, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Astrid Meloni, Alessio Bernardi, Leon Kelmendi
scene Antonio Fiorentino
costumi Andrea Viotti
luci Pasquale Mari
musiche Antonio Di Pofi
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Artisti Riuniti e Mittelfest 2015