Qualcuno volò sul nido del cuculo con la regia di Alessandro Gassmann, testo di Dale Wasserman e adattamento di Maurizio De Giovanni. Visto al Teatro Eliseo. Recensione
Nel caso in cui Alessando Gassmann avesse avuto intenzione di confezionare uno spettacolo commovente e consolatorio bisogna ammettere che c’è riuscito in pieno. Qualcuno volò sul nido del cuculo, in scena nella sala grande del Teatro Eliseo fino al 29 gennaio, è una macchina teatrale che cerca, dalla prima all’ultima scena, con i sui ingranaggi ben oliati e puntuali, di emozionare il pubblico. Bene direte voi, cos’altro deve fare il teatro? Far riflettere (senza divenire necessariamente un rebus intellettuale)? Mettere in crisi lo sguardo e la mappa dei sentimenti – spesso indotti– con cui ci esponiamo al mondo?
Il gigante Ramon che alla fine solleva la statua della Madonna, la lancia verso le finestre e scappa via, vittorioso nella sconfitta, diventa sineddoche di tutti gli sconfitti che hanno il coraggio di riprovarci, di rialzarsi per riprendersi la libertà. Ma, attenzione, non basta il solo gesto già di per sé eroico, la regia ci mette il carico e la retorica del messaggio viene amplificata dalla tecnica utilizzata: la scena si svolge sul velatino, mediante proiezione – ormai marchio di fabbrica negli spettacoli di Gassmann –, la figura del gigante buono avanza verso il pubblico, i vetri in frantumi si scagliano attuando un gioco di prospettiva sugli spettatori e il nostro eroe si muove superando quarte pareti metaforiche – in quanto vince le proprie paure e torna al mondo – e virtuali. Avanzando verso la platea si fa sempre più alto, finché di lui possiamo vedere solo i piedi. La musica accompagna con enfasi la scena, applausi, forse qualche lacrima, animo sollevato: il riscatto c’è stato, non c’è bisogno di interrogarsi sul resto, l’emozione, quella catarsi tipica dei drammoni hollywoodiani non necessità di altro, cancella tutto, punta dritto allo stomaco e al cuore.
Eppure basterebbe frenare, un attimo prima che quei vetri si rompano, per non sfasciarsi il muso su un muro di retorica e porsi qualche domanda. Perché Maurizio de Giovanni, anche grazie al lavoro di traduzione di Giovanni Lombardo Radice ci aveva provato. Il tentativo è quello di ambientare in Italia (nel manicomio di Aversa) la drammaturgia che Dale Wasserman ha scritto a partire dal romanzo di Ken Kesey. Naturalmente sullo sfondo rimane il capolavoro cinematografico di Miloš Forman con Jack Nicholson. Ma il lavoro di De Giovanni sembra fermarsi nelle intenzioni: siamo in un ipotetico ospedale psichiatrico campano ma solamente il protagonista e uno degli infermieri hanno accento e parlata napoletana. La capo infermiera contrappone un italiano perfetto, duro, impassibile, anche qui il gioco simbolico è presto detto: alla vitalità del giovane uomo internato per futili motivi giudiziari si oppone l’assenza di emozioni quasi robotica, lo stato e suoi meccanismi coercitivi contro la libertà individuale. Poi ci sono gli altri pazienti, tutti molto divertenti (ce n’è anche uno strappato alle sale da ballo romagnole, una sorta di cowboy schizzato della Bassa padana, interpretato da Emanuele Maria Basso); più che sembrare il tentativo drammaturgico di ambientare il dramma in un preciso luogo e tempo, la riduzione appare come una sorta di favola moderna (disneyana appunto), l’identità più che napoletana è naziona-lpopolare: le foto di Wojtyła e Pertini, gli azzurri in finale con la Germania.
Commovente la scena in cui nonostante la votazione positiva, ai pazienti viene negato l’utilizzo della televisione facendo appello al regolamento, ma come sempre succede in questa altalena emotiva ben orchestrata, i derelitti si riprendono la dignità: la partita se la immaginano, come se le vedessero raccontano le azioni da goal, fino all’esplosione con Tardelli che festeggia a pugni chiusi nel celebre frammento video, naturalmente proiettato sul velatino.
Quella della favola d’altronde sembra essere l’unica chiave possibile per “giustificare” certe scelte e i vizi melodrammatici. Si veda ad esempio la recitazione monolitica di Elisabetta Valgoi nei panni di Suor Lucia, spesso vista in prestazioni ben più dinamiche, l’estroso partenopeo Daniele Russo (Randle MacMurphy diventa Dario Danise) che si muove con l’agilità di un attore da musical, puntuale nell’energia e nella comicità, ma più scontato nei momenti tragici, ma tutti (forse ad eccezione del solo gigante Ramon interpretato da Gilberto Gliozzi) sono più maschere che personaggi, nei quali è difficile rintracciare un’evoluzione. La scena altro non è che la ricostruzione di una grande sala dell’ospedale psichiatrico con una porta a vetri a destra, un tavolo per giocare a carte, l’ufficio vetrato dei medici dal quale la suora comanda come un capitano al timone della propria nave e un ballatoio che mostra le celle in cui sono rinchiusi i malati cronici; sul palco, in basso, la grande scritta “ospedale psichiatrico”.
Le luci di Marco Palmieri, che all’occorrenza diminuiscono d’intensità per creare intimità ed atmosfera, colorano il grigio finto vecchio delle pareti, le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi arrivano nei momenti giusti per amplificare gli stati emotivi, la festa organizzata dal nuovo arrivato trasforma il palco in una specie di discoteca, si intravedono le ombre dei degenti cronici che ballano. È davvero una favola. E allora non c’è neanche il tempo di problematizzare alcuni importanti nodi drammaturgici, quali la lobotomia a cui viene sottoposto il paziente ribelle; siamo negli anni ’80 (con legge Basaglia da poco entrata in vigore) dunque difficilmente si sarebbe trattato di un raro caso. Il romanzo di Kesey fu scritto nel 1959 e pubblicato qualche anno dopo, nel bel mezzo delle lotte sui diritti civili, l’autore aveva lavorato in una struttura psichiatrica californiana e lo spunto arrivava dall’osservazione diretta; ma il problema qui non è neanche la correttezza storica, il rapporto con il romanzo o con il film, ma è in questa visione della vita e della società smielata, dove tutto può essere consolato, è nella facilità con cui certi temi vengono sollevati e poi lasciati sciogliere nell’enfasi melodrammatica.
Andrea Pocosgnich
Teatro Eliseo, in scena fino al 29 gennaio 2017
Qualcuno volò sul nido del cuculo
di Dale Wasserman
dall’omonimo romanzo di
Ken Kesey
traduzione Giovanni Lombardo Radice
adattamento
Maurizio de Giovanni con
Daniele Russo
Elisabetta Valgoi
e con Mauro Marino Giacomo Rosselli Alfredo Angelici Emanuele Maria Basso Davide Dolores Daniele Marino Gilberto Gliozzi Antimo Casertano Gabriele Granito Giulia Merelli
uno spettacolo di Alessandro Gassmann
produzione Fondazione Teatro di Napoli
Ho trovato un pò fastidioso il telo davanti per la proiezione delle immagini che faceva sembrare di essere a cinema più che a tatro: ho goduto la vicinanza degli attori solo alla fine, ai saluti. Inoltre intollerabile la sigaretta fumata dal protagonista 2-3 volte nello spettacolo, che si sentiva per tutto il teatro. Per il resto bello spettacolo con buona recitazione generale.