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Il Pinocchio di Latella tra memoria, menzogna e morte

Il Pinocchio di Antonio Latella debutta al Piccolo Teatro di Milano. Recensione.

Foto di Brunella Giolivo
Foto di Brunella Giolivo

Piovono trucioli sul palco del Piccolo Teatro Strehler. Calano copiosi come pioggia: è una caduta che a tratti s’infittisce, prende traiettorie oblique, si accumula al suolo, riempie le fauci e accarezza i volti. Un moto non perpetuo fa da sfondo e interloquisce con i personaggi dell’ultimissima creazione di Antonio Latella, Pinocchio, al debutto al Piccolo Teatro, che produce. Il riferimento è a uno dei testi cruciali della letteratura italiana, Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, di cui il regista partenopeo fa sapientemente uso per raccontare quella e molte altre storie, contorcendo, bistrattando, trafugando e insieme impreziosendo il classico. Dà vita a un mondo distopico in cui i personaggi sono rotondi, pregni di una caratterizzazione che conosce zone d’ombra e di sfumato, con un affondo più deciso rispetto alla parabola moraleggiante del romanzo di Collodi.

Foto di Brunella GIolivo
Foto di Brunella GIolivo

Nella prima parte si assiste alla bizzarra genesi di un bambino da un tronco di legno, di fronte alla meraviglia stupita di Geppetto. C’è tutto l’universo umano proveniente dall’originale: Mastro Geppetto e Mastr’Antonio, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, i burattini del parterre di Mangiafuoco. La scena ha una semantica densa: una porta di metallo – il cui rumore e movimento vengono amplificati e riverberati – una fisarmonica muta, un enorme tronco di legno pendente e perpendicolare. La storia procede su alcune tappe note, avvolta in un’atmosfera cupa, vede poi l’affiorare di alcuni temi, inserzioni nella drammaturgia composta da Latella assieme a Federico Bellini e Linda Dalisi: l’accento sull’insensata e insaziabile fame del burattino – una bramosia che ha il sapore dell’angoscia esistenziale – , la paura nei confronti del mondo esterno o la memoria come terreno frastagliato e ambiguo – «i ricordi sono il lato patetico della memoria».

Foto Brunella Giolivo
Foto Brunella Giolivo

Topoi, questi, che vengono solcati nella seconda parte, nella quale si slabbrano ampie smagliature di senso nel testo collodiano con citazioni più o meno criptate: tra l’allusione dal gusto shakespeariano («dormire, sognare»), Tony Manero e la sua “febbre del sabato sera”, e non ultimo il più volte citato Dante («per me si va…»). Si apre inoltre uno squarcio metateatrale in cui il regista si scaglia contro la vulgata di matrice stanislavskjiana dell’immedesimazione emotiva come luogo sacro, del cliché di «entrare nella pelle del personaggio… che schifo! E se il personaggio avesse la dermatite?», per evocare e affermare il valore dell’istante teatrale come momento di suprema verità. L’atmosfera mortifera si aggrappa alla vita, ridicolizzando gli slanci che vi compaiono, inutili e fittizi tanto quanto l’esistenza e la pulsione creativa di dare la vita. Da qui prende spazio il discorso, centrale rispetto al cuore più profondo di quest’opera, intorno alla paternità e proprio il finale, efficace e atroce, incalza sulle questioni di senso che gravitano nell’orbita di una paternità irrisolta («Fare un figlio non vuol dire amarlo» o anche, precedentemente, «Se volete un bambino perfetto compratevi un pupazzo di ‘sto cazzo»).

In questo spettacolo non si guarda allo scanzonato bambino-burattino con simpatia e condiscendenza, qui Pinocchio non è altro che una pedina dell’intricato e grottesco gioco della tragedia umana, vittima di un mondo che non gli ha fatto capitare ancora «un quarto di bene», ma anche aguzzino senza scrupoli proprio nei confronti di coloro cui è debitore: Geppetto e la Fata Turchina. Pinocchio è un’opera ricca e caotica, a tratti verbosa e disordinata, ma che ambisce con tratto visionario a vari strati di profondità e trova completezza in un finale ostinato e amaro.

Giulia Muroni

Visto al Piccolo Teatro Strehler, Milano in scena fino al 12 febbraio 2017

PINOCCHIO 
drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe
musiche Franco Visioli, luci Simone De Angelis
con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

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Giulia Muroni
Giulia Muroni
Giulia Muroni, giornalista pubblicista, lavora per Sardegna Teatro dal 2017. Per il TRIC cura la programmazione artistica del festival Giornate del Respiro, è referente di alcuni progetti europei larga scala, è direttrice responsabile del magazine anāgata, componente della giuria del Premio Scenario e è responsabile dell'ufficio stampa. Lavora inoltre per Fuorimargine – Centro di produzione di danza e delle arti performative della Sardegna, per il quale si occupa di programmazione artistica e ufficio stampa. Ha pubblicato su diverse testate giornalistiche e scientifiche, riguardo ai temi dell'arte performativa, della filosofia del corpo e del portato politico dei processi artistici nei territori e nelle marginalità. Nata a Cagliari, è laureata in filosofia all'Università di Siena, si è specializzata all'Università di Torino e ha conseguito all’Università di Roma3 un Master di II livello in Arti Performative e Spazi Comunitari. Ha effettuato un tirocinio alla DAS ARTS di Amsterdam, nel periodo della direzione di Silvia Bottiroli. Ha beneficiato del sostegno Assegni di Merito e Master&Back della Regione Autonoma della Sardegna per i risultati del percorso accademico.

4 COMMENTS

  1. Ho potuto assistere ieri sera allo spettacolo, personalmente lo trovo inguardabile, si fatica a rimanere seduti per quasi tre ore spettatori di tale scempio, è una mostruosità. Quando l’intelletto sconfina nel puro intellettualismo spesso e volentieri generà l’indefinibile, inconcepibile; improponibile l’arte è spontaneità quando è prigioniera della mente ne viene violentata divenendo un obbrobrio qual è questo spettacolo.

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