La Compagnia Habitas presenta L’imbroglietto in debutto allo Studio Uno di Roma. Recensione
Facciamo un gioco, immaginiamo di trovarci nella Germania dei Tingeltangel, in quei Kabarett dove nel primissimo Novecento Karl Valentin e Liesl Karlstadt anticipavano le linee guida del teatro dell’assurdo. Variamo: siamo alla fine della nostra era, e due figuri stanno insieme ma vanno in due direzioni opposte, inseguono ciascuno il proprio bisogno, c’è chi vuole vedere uno spettacolo, chi semplicemente mangiarsi una poltrona. Per entrare, poiché senza denaro, dovranno provare a imbrogliare una bigliettaia elettronica, un MacBook che farà loro il verso. Variamo ancora? Ci potremmo spostare in un salotto à la Ionesco, in Giappone, oppure nell’immaginario cavalleresco del Brancaleone monicelliano o nel mondo fantastico del Signore degli anelli. Il gioco può continuare all’infinito. La voce automatizzata ci inviterà a pensare altre soluzioni, a partecipare a fine spettacolo anche noi a questa infinita variazione, a beffare e farci beffare a nostra volta.
A questo ci invita la Compagnia Habitas, a far parte de L’imbroglietto, un esercizio di stile che guarda all’opera degli artisti bavaresi (i nomi dei due personaggi sono un rimando al cognome di Liesl, Karl e Stadt), agli Esercizi di stile di Queneau e a La Lettera di Paolo Nani (che a sua volta si ispira a Queneau nella riproposizione di una stessa traccia su diverse varianti ritmiche o sceniche). Niccolò Matcovich, che scrive e dirige questo lavoro in debutto allo Studio Uno di Roma, guida Livia Antonelli e Valerio Puppo in un divertissement con leggerezza e precisione, reinventando per loro un apposito vocabolario di parole e movimenti. Le storpiature, le vocali biascicate o sostituite, i trilli, gli schiocchi e i silenzi da un lato e dall’altro la costanza di gesti dal carattere ritmico sempre ben preciso, vibrato, nervoso, rallentato o velocissimo, creano un leggero sfasamento, focalizzando la nostra attenzione sulla ricezione di quanto accade in scena; una scena che, con l’eccezione di due sedie e del computer, si costruisce tutta grazie all’efficacia dei due giovani attori.
Alcuni potrebbero obiettare sul carattere accessorio, sostenere quanto tutto possa essere superfluo, un virtuosismo. Ma, se tutto è inutile, è tutto dunque potenzialmente necessario per questa macchina scenica. E se il materiale su cui riflettere può essere ingombrante, se i ritmi non sempre colgono sincronicamente l’animo di chi li ascolta (ma in questo spettacolo accade di rado), se il mimo si dilunga eccessivamente su un gesto o lo schema rischia la ripetitività, c’è sempre tempo per limare, aggiungere, astrarre, variare. Cosa che si promette L’imbroglietto.
Evolvere, come l’ultima esilarante sequenza che parte dalle amebe del Protozoico, allungate tra sedie e pavimento, che si ergono per diventare scimmie e (obbligato nel riferimento musicale a Also sprach Zarathustra, quello alla Space Odissey di Kubrick), quindi danza tribale e battaglia laser, accompagnate da un commento sonoro riconoscibile per gli amanti del cinema di George Lucas. Alla fine di questa cosmogonia rimangono i due clown, intenti a capire come «uissitare il tea-a-a-a-tro» (traduciamo, per chi non fosse provvisto del vocabolario fornito a inizio spettacolo: «visitare il teatro»). Il loro naso rosso è soltanto dipinto, perché, se all’inizio di questa storia il mito narrava di nasi potenti, affidati a tre politici e nove teatranti pronti per «ghermirli e col naso sbeffeggiarli», loro non sono i fautori, sono i beffati. Sono coloro che come Prometeo avevano scoperto il fuoco del teatro, ma che per il proprio peccato sarebbero stati condannati a rivivere in eterno la propria dannazione. Continuate ad andare a teatro e aiutate gli attori a completare il proprio “eterno supplizio”.
Viviana Raciti
Teatro Studio Uno, Roma – gennaio 2017
L’IMBROGLIETTO. Variazioni sul tema
scritto e diretto da Niccolò Matcovich
con Livia Antonelli, Valerio Puppo, un MacBook Pro
produzione Compagnia Habitas