Al Teatro Studio Uno, e in un centro d’accoglienza, i burattini di DivisoPerZero portano in scena una versione dell’Ubu Re di Alfred Jarry con pupazzi e ombre. Recensione.
«Il tema dello spettacolo è il potere. Padre Ubu e Madre Ubu prima di essere re e regina hanno ucciso un altro re. Durante il regno padre Ubu ha solo mangiato tutti i soldi della “cosa pubblica”, e non è una cosa buona; dopo avere ucciso tutte le persone Padre Ubu e Madre Ubu scappano per andare in Francia, questo ho capito». La restituzione di Moussa, uno dei ragazzi del progetto Spettatori Migranti/Attori Sociali, attivato da Teatro e Critica con il Cas Casilina, è chiara; arriva all’uscita del Teatro Studio Uno, dopo aver salutato Alessandro Di Somma, il direttore artistico del teatro di Tor Pignattara che ha accolto per la seconda volta un gruppo di ragazzi del centro d’accoglienza – qualche chilometro più giù sulla stessa via Casilina – impegnato in un percorso di spettatorialità e cittadinanza nei teatri romani.
Lo spettacolo descritto è Ubu Me, l’Ubu Re di Alfred Jarry in versione “da tavolo” per burattini, pupazzi e marionette, creata e messa in scena da DivisoPerZero di Francesco Picciotti e Francesca Villa; i due, impegnati in diversi progetti (tra gli altri Picciotti è nel trio del Nano Egidio) si definiscono, fieramente, “burattinai”, seguaci di un lavoro che nella materia cerca la sua più alta spiritualità. Quella stessa materia – stoffa e imbottitura – che il loro Padre Ubu fagocita ossessivamente, in un rituale che nell’annientamento dell’altro trasforma al tempo stesso la propria figura. Quel continuo ruminare che accompagna la sua apparizione in scena e che renderà il burattino, spinto da Madre Ubu e manovrato dall’ingordigia, un enorme pupazzo paralizzato dall’avidità stessa. Tutto, in Ubu Me, ruota attorno alla pancia, all’ombelico, alla spirale; non a caso la carica reale si fa pronome personale, in una versione “I” dell’essere Ubu, dove il pronome Me s’impone come Re in una bulimia dell’ego che ben conosciamo; in un primo momento elemento scenico, poi corpo del capitano dei dragoni, la pancia di Ubu fa da scenario a battaglie, troni e fughe in mare.
Tutto è inserito in una sorta di funzione patareligiosa – ancora troppo poco organica nella prima replica – nella quale Picciotti e Villa riacquistano la loro materia e al servizio delle teste di cartapesta inscenano frammenti ispirati alla messa cristiano/cattolica. Il potere, come il teatro, si percepisce allora come rito che necessita dei suoi sacerdoti, e del quale tutti in fin dai conti siamo figli. La provocazione di Jarry è evidente, nonostante possano essere sviluppati maggiormente i tratti di quell’umorismo sbracato fino alla farsa tipico dell’opera (si segnala che la replica vista era il debutto); la scena artigianale e i corpi dei due attori che danno vita alle stoffe, alla cartapesta, rispondono chiaramente tra quelle facce più o meno abbozzate alla domanda su quale sia “il confine della percezione umana dell’uomo”.
Confine che, straordinariamente, varchiamo ancor di più quando i due burattinai escono dal teatro e una settimana dopo vengono a trovare il gruppo di spettatori migranti all’interno del Centro d’Accoglienza. Capita così che mentre i due burattini iniziano a parlare nuove lingue tra i banchi della scuola di italiano, viene in mente come tutti dovremmo tornare a imparare nuovamente la parola potere: abbandonare il sostantivo, il dominio sull’altro, e tornare al verbo ‘potere’ come possibilità di azione. Francesco Picciotti e Francesca Villa possono costruire dei burattini, delle marionette, dei pupazzi; possono mettere in scena un testo patafisico in versione da tavolo concentrando nella stoffa il grottesco e la denuncia; possono farlo in un teatro di periferia che alla periferia del potere vive e sopravvive; possono fare lo stesso in un centro d’accoglienza chiedendo il permesso alla prefettura di Roma; lì dei ragazzi possono prendere quegli stessi burattini e dare voce al proprio potere di reinventarsi. Noi, privi ormai di alcun potere, possiamo ancora invertire la narrativa di una società che non controlliamo più se e solo se, insieme, crediamo nel potere di ritornare all’azione.
Luca Lòtano
visto al Teatro Studio Uno di Roma – novembre 2016
UBU ME
liberamente tratto da UBU RE di Alfred Jarry
regia DivisoPerZero
con Francesco Picciotti e Francesca Villa