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Teatralità sopratitolata. Che linguaggio esportano gli artisti?

Di ritorno dalla quinta edizione di Interferences Festival a Cluj, Romania, qualche riflessione sulla possibilità di esportare il teatro in un contesto internazionale.

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Hamlet di n Thomas Ostermeier. Schaubühne, Berlino. Sovratitoli in inglese

Se certi artisti decidono di lasciare il proprio paese e cominciare una carriera altrove, dando forma a un nuovo stile su misura delle peculiarità di un pubblico straniero, altri esportano il proprio lavoro come un campione del teatro che hanno imparato a costruire. E dunque dov’è l’essenza delle loro scelte artistiche? E in che misura essa dipende dall’ambiente che la accoglie?

Viaggiare in Europa per vedere teatro – come sta capitando al gruppo Young European Journalist on Performing Arts nel contesto del programma UTE “Conflict Zones” – isola sempre la domanda circa l’esportabilità, specialmente riguardo a quegli spettacoli presentati nei cosiddetti “eventi internazionali”.
Va da sé, la danza e la musica hanno la straordinaria opportunità di essere davvero universali, perché non sono basati su codici di linguaggio fissi: l’assenza della parola detta – o la sfida lanciata alla sua supremazia – porta la semiotica della performance a un grado più fisico, empatico e immediato.
La domanda è: quanto e perché un artista sceglie di esportare questo o quello spettacolo? È al corrente del livello di ingaggio necessario a esso perché venga completamente fruito da un pubblico straniero?

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Electra di Andriy Zholdak

Campione numero 1. il 1° dicembre, la Sala Principale ha aperto il sipario sulla messinscena del regista ucraino Andriy Zholdak, Electra, prodotto dal Teatro Nazionale di Macedonia, cupo adattamento del classico greco “basato su Eschilo, Sofocle e Euripide”. Nel primo atto, un enorme container, con finestre e porte scorrevoli, incornicia quattro diversi spazi: uno studio/camera da letto, un corridoio, un bagno, una cucina. Sulla sommità della struttura, due schermi laterali proiettano un live feed dei primi piani degli attori e di dettagli della scena. Così, gli spettatori sono invitati a spostare l’attenzione da una parte all’altra, inseguendo un montaggio molto complesso di azioni ed emozioni.
Separati dalla narrazione – è però cruciali per la comprensione – appesi al soffitto ci sono due altri schermi, che mandano i sopratitoli: inglese, romeno e ungherese al centro, macedone a lato. Dunque l’attenzione deve dividersi almeno un’altra volta, a seconda della lingua madre dello spettatore che al contempo sta ascoltando una lingua straniera.
Fortunatamente il taglio generale della performance non poggia molto sulla parola, quanto piuttosto su immagini impressionanti e uno stile attoriale profondamente emozionale, non senza un generoso tocco di Grand-Guignol nelle scene di assassinio.

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L’anima buona del Szechwan, di Andrei Șerban

Campione numero 2. Il giorno seguente, lo stesso teatro ha ospitato l’allestimento di Andrei Șerban de L’anima buona del Szechwan di Bertolt Brecht per il Bulandra Theatre, Romania. Gli attori, con i volti pittati di bianco, mescolano testo e canzoni in una scena semplice ma colorata, tentando di ricreare un immaginario puramente brechtiano. In questo caso, di grande aiuto è stato il fatto che la trama è piuttosto familiare a chiunque si interessi di teatro moderno e contemporaneo, dal momento che ancora una volta i sopratitoli (in ungherese e inglese) non sono sempre facili da seguire.

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fumato Theatre Laboratory di Sofia, Bulgaria. OOOO – The Dream of Gogol

Campione numero 3. Il 2 dicembre era anche la serata dello Sfumato Theatre Laboratory di Sofia, Bulgaria. OOOO – The Dream of Gogol è un viaggio molto ben architettato nell’immaginario di Nikolaj Gogol’, con estratti da diversi racconti, portato in scena da un affiatato gruppo di attori e attrici. Il mood è quasi sempre a metà tra umoristico, ironico, cupo e disperato. Con solo un ballatoio e un muro di fondo come scenografia, qualche botola, luci ben disegnate, oggetti e costumi semplici e un talento attoriale impressionante sono sufficienti a intrattenere il pubblico. Il ritmo della parola parlata – di frequente consegnata da almeno tre performer simultaneamente – è la chiave per organizzare sul palco un simile rigoroso teatro fisico. Ancora una volta, inondata da un tale fiume in piena di parole in bulgaro, l’attenzione attraversa qualche difficoltà nel tentativo di seguire il testo scritto, che sta scorrendo sullo schermo in slide bicolori molto dense e veloci.

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The Stranger’s Song con Jaram Lee, diretta da Ji Hye Park

Campione numero 4. Il 3 dicembre, di nuovo nella Sala Principale. Il Festival ospita il grande talento della storyteller sud-coreana Jaram Lee (qui diretta da Ji Hye Park). Il suo pansori (questo il nome della tradizionale forma di storytelling musicale eseguito da un vocalist e un percussionista), The Stranger’s Song, non ha bisogno d’altro che di un po’ di spazio per muoversi, un ventaglio e due musicisti (che suonano buk e chitarra). In questo adattamento della novella di Gabriel Garcia Marquez Buon viaggio, Signor Presidente (pubblicato su The New Yorker nel 1993), i sopratitoli sono ancora lì, sullo schermo a fare il loro lavoro di traduzione in tre lingue. Eppure l’intera performance è così strettamente legata al linguaggio del corpo e così meticolosamente costruita sulla relazione tra performer e spettatore che non serve più leggere interamente le parole. Grazie all’intelligente atteggiamento di Lee nel mettere il pubblico a proprio agio, e di certo grazie a una storia semplice ma potente, siamo in grado di seguire il sentiero dalla pantomima alla poesia, senza preoccuparci troppo delle parole esatte.

Anche se questi quattro campioni non possono dare conto esaustivo di tutte le performance che il pubblico dell’Interferences Festival era invitato a vedere, qual è il significato di questa selezione?

Nei campioni proposti risulta evidente quanto cruciale possa essere un’attenta cura per la drammaturgia visuale, da mantenere viva e in grado di mettere alla prova l’occhio dello spettatore. Ogni artista è magari consapevole che i sopratitoli sono l’unico modo per veicolare il significato basilare di una trama (se ve ne è una), ma non tutti scendono a patti con l’uso dei numerosi altri elementi comunicativi in una misura egualmente efficace.

Il tentativo di Margarita Mladenova e Ivan Dobchev (campione numero 3) è notevole perché dà forma a gran parte della narrazione sulle caratteristiche fisiche dei performer, sul loro gesto, sulle loro posizioni sotto le luci e su una precisa gestione della prossemica. Incaricato di guidare l’attenzione, durante le parti corali, non è tanto il significato delle singole frasi (che per altro risultano montate con grande cura), ma piuttosto quelle inflessioni, quegli accenti, quell’accelerazione e quel rallentamento che danno colore al discorso. In ultimo, una sottile padronanza dello spazio, che accende angoli diversi del palco con diversi toni, aiuta la trama a cambiare scenario e traghetta il testo da una novella all’altra. Stiamo sorvolando la Russia e l’Ucraina di Gogol’ e leggendo su uno schermo digitale frammenti di un discorso sconnesso, proprio come quello del Diario di un pazzo che, come ultimo estratto offerto, finisce per suonare come il più coerente. Soltanto perché Mladenova e Dobchev ci hanno fornito in anticipo un manuale del loro linguaggio.

Le difficoltà che un pubblico straniero può aver incontrato ne L’anima buona del Szechwan di Șerban sono forse legate alla gestione dello spazio: l’ampio palco – due quinte laterali che provvedono a tutte le entrate e un modello in scala della città sullo sfondo, dove il musicista suona e canta – è quasi vuoto e attraversato da tutti i personaggi che entrano ed escono coprendo quasi le stesse diagonali. Se si abbassasse il volume delle parole e delle canzoni, la parata visiva sembrerebbe ricalcare schemi simili più e più volte, distaccando lo spettatore dalle sfumature di un così denso testo, e senza offrire ogni altro gancio a cui appendere l’attenzione dello spettatore.

Facendo un salto indietro verso considerazioni più generali, persino in una comunità occidentale presumibilmente coesa come l’Europa, attraversare i confini della lingua è sempre una missione difficile da portare a termine. Per quanto qua e là esageri nel sommare input a input e però evocando scaltramente sequenze disturbanti che in qualche modo attirano l’attenzione, il campione numero 1, Elektra, riesce a esportare un’intensa esperienza teatrale perché va oltre la semplice consegna di un testo.
Ma la soluzione trovata da Jaram Lee rimane la più efficace. Gentilmente (e però in maniera acuta) solleticando la fascinazione per l’esotismo, The Stranger’s Song accetta un compromesso fondamentale per esportare il proprio linguaggio: amalgamare una tradizione nazionale secolare con certi semplici trucchi di comunicazione.

Lo storytelling stesso non è soltanto performato, ma discusso di fronte al pubblico: di frequente Lee salta fuori dalla performance per spiegare perché usi un ventaglio, perché abbia bisogno di una specifica qualità di attenzione e concentrazione, perché abbia scelto proprio quel racconto occidentale. Se questo stile non ha bisogno per essere compreso di giustificazioni né di una speciale conoscenza della cultura orientale è perché gli elementi comunicativi sono stati accuratamente preparati prima dell’esportazione, la loro selezione è già chiara nella forma e nell’attitudine della performer, che gioiosamente la condivide con il pubblico.

In altre parole, una buona strategia per un artista di gestire l’attenzione di uno spettatore straniero è di mettere alla prova tutti gli elementi chiamati in causa nella forma prima di esportare un lavoro. Come abbiamo avuto esperienza durante il think tank dei giornalisti – dove ogni tematica ha un’influenza diversa da paese a paese – occorre più o meno lo stesso tipo di cura che tutti mettiamo nelle nostre conversazioni, quando ci troviamo a parlare con un gruppo di compagni stranieri: non vogliamo parlare sopra agli altri; si tratta di ascoltare e di imparare dall’altro.

Sergio Lo Gatto

Questo articolo è apparso, in inglese e italiano, sulla rivista internazionale Conflict Zones Reviews. Proprietà dell’Union des Théâtres de l’Europe (et de la Méditerranée). Per gentile concessione.

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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