Al Teatro Argot Studio torna in scena dopo più di vent’anni Maratona di New York, storico testo di Edoardo Erba. Recensione
Quasi sessanta minuti di corsa, di testa e diaframma, di fiato spezzato, di crampi e denti stretti. Maratona di New York di Edoardo Erba, andato in scena per la prima volta nel gennaio del 1993 con interpreti Bruno Armando e Luca Zingaretti, è un testo che si misura in passi percorsi, in sudore; il ritmo della messa in scena è affidato al battere e levare di suole dei due attori, all’affanno della memoria che brucia ossigeno all’oggi. Eppure se Steve (Edoardo Purgatori) e Mario (Marcello Paesano) avessero attivato una delle più comuni app per la corsa, al termine dello spettacolo le statistiche dettagliate sull’andatura e i tempi avrebbero descritto la distanza in chilometri percorsi con un solo numero: lo zero.
Perché il testo di Edoardo Erba corre, ma corre sul posto. E il posto non è solo il palcoscenico del Teatro Argot Studio, ricoperto di foglie umide. Il posto è il presente, quello spazio che continuamente sfugge, in bilico tra il passo che finiamo e il successivo; è il posto in cui i dubbi, le emozioni e le inquietudini ingolfano il respiro, è il solo posto che ci è dato abitare. Per un tempo finito.
Mario e Steve si allenano per la maratona di New York, una sera qualunque. Mario, che aspetta gli spettatori in scena, sulle foglie, quando si alza ha una corsa sghemba, fatica a spezzare il fiato, a trovare il ritmo del compagno; ha una tuta anni novanta col cappuccio, trascina una gamba e stenta a credere di poter arrivare al passaggio a livello indicato dall’amico come obbiettivo da raggiungere. Steve, invece, è il corridore professionista, lo riconosci dalla maglietta termica, dallo stretching perfetto, dall’orologio al polso per contare i passi, la distanza; quello con il polsino e la bandana intorno alla fronte per non sentire il sudore – per non sentire. Quando però la corsa inizia ad essere faticosa, le gambe a cedere, il respiro dello spettacolo diventa più lungo, e la corsa si fa calzante metafora della vita; diventa quel posto immobile ma in movimento nel quale ci misuriamo con la memoria, con le domande che non hanno risposta, cercando tra un respiro e l’altro di trovare un senso all’andare, e al vivere. Perché continuare a correre? Perché non fermarsi?
Nella messinscena di Maurizio Pepe recitazione e corsa si incontrano così nel diaframma, in quel muscolo della respirazione che regola il movimento di visceri estremamente coinvolti nelle emozioni. Gli attori sudano, ed è nel respiro che cambia che i due si alternano i ruoli, è nel diaframma rigido di uno o nel fiato spezzato dell’altro che la drammaturgia modula la percezione di ciò che i due stanno vivendo o hanno vissuto. In una messa in scena che non cerca – trova? – nell’interpretazione dei due attori il suo punto di forza, è comunque Marcello Paesano a convincere maggiormente, con un Edoardo Purgatori che incarna perfettamente lo sportivo ma che eccede in una rigidità che a tratti ne allontana la credibilità.
Il testo di Edoardo Erba è un meccanismo semplice e funzionale, e tale si rivela la regia di Pepe. Lo spettacolo scorre, la ricerca è affidata al dialogo tra i due amici, al soliloquio di un uomo che corre e che modula il passo per non avere, alla fine, il fiatone; come l’emerodromo Filippide dell’antica Grecia arrivare da Maratona ad Atene senza nessun altro motivo se non per dire: «abbiamo vinto». E poi, morire.
Luca Lòtano
MARATONA DI NEW YORK
di Edoardo Erba
regia Maurizio Pepe
con Edoardo Purgatori e Marcello Paesano