Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 50 rintracciamo, attraverso racconti e testimonianze, il rapporto di Demetrio il Cinico con le pratiche teatrali
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – Collaboratore di ricerca post doc dell’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Abbiamo visto che i Cinici non assumono lo stesso atteggiamento verso gli attori e la loro arte. Quelli più antichi – come Diogene e Cratete – erano ostili al teatro, benché riprendessero da qui alcuni spunti educativi. Altri più “moderni” (Bione, Menippo) erano invece più accomodanti, tanto che ricorrevano alla metafora della vita umana come un palcoscenico, su cui tutti recitano un ruolo assegnato dalla fortuna.
Durante l’impero di Nerone, si riscontra un analogo apprezzamento positivo. Da un lato, sappiamo grazie a Svetonio che Isidoro il Cinico biasimò l’Imperatore assieme a un attore di pantomima di nome Dato, e che entrambi furono esiliati. Facendo allusione alle doti e alle propensioni poetiche di Nerone, l’uno lo accusò – con una gustosa costruzione retorica a chiasmo – di saper cantare bene i mali dell’eroe Nauplio, ma di amministrare male i beni dello stato. L’altro invece insinuò, in una sua pantomima, che l’Imperatore fu responsabile delle morti del suo predecessore Claudio e della madre Agrippina.
Apparentemente diverso è, d’altro lato, il rapporto che ebbe verso la pantomima Demetrio il Cinico, figura molto amata da Seneca e Luciano di Samosata. Quest’ultimo ci tramanda, infatti, nel trattato Sulla danza, una sua critica al lavoro dei pantomimi, asserendo sostanzialmente che esso è superfluo alla rappresentazione artistica e procura un piacere vano. La vicenda della tresca tra Marte e Venere ai danni di Vulcano non risulta perspicua, per esempio, grazie alla mimica: è la musica a comunicare tutto, poiché i movimenti mimici sono in sé irrazionali e senza pensiero. Se dunque la pantomima piace a molti, non è virtù del suo contenuto artistico, ma perché la folla prova piacere al sentire le melodie e all’osservare le vesti come le maschere sgargianti dei mimi.
Luciano stesso riferisce, tuttavia, che Demetrio alla fine rinunciò a questa sua falsa opinione. Un famoso mimo gli mostrò che, anche senza la musica, la pantomima risulta comprensibile e piacevole. Demetrio lo riconobbe e rinunciò alla sua idea che i movimenti mimici sono irrazionali, dicendo che quelli che aveva visto fare all’artista non parlano solo alla vista, ma anche all’udito. In un certo senso, si potrebbe dire che il Cinico riconosce che i moti del mimo producono una sorta di musica suadente, che tuttavia spesso non è avvertita, perché coperta dall’accompagnamento musicale dei flauti e altri strumenti.
Demetrio non si rivela perciò nemico del teatro e, una volta liberatosi dalla sua falsa opinione, egli risulta di fatto amico e affine ai mimi, come il suo collega Isidoro. Una piccola conferma è data da un altro aneddoto di Luciano, conservato nel pamphlet Contro un ignorante. Il Cinico distrusse la copia delle Baccanti di Euripide che uno stolto stava leggendo, probabilmente perché questi era incapace di comprendere la poesia del grande tragico e tale sarebbe rimasto, pur leggendo la tragedia a lungo. L’aneddoto ci mostra che Demetrio era di per sé sensibile alle arti e alle opere performative, confermando così che ’eccezione apparente verso la pantomima era dettata, appunto, da un falso pregiudizio, più che da un’avversione naturale per la scena.
Il racconto di Svetonio e gli aneddoti di Luciano ci mostrano, insomma, che – almeno all’epoca di Nerone – Cinici e teatranti furono profondi alleati, anche nella lotta al potere politico corrotto. All’origine conflittuali, i rapporti tra teatro e Cinismo si fecero col tempo sempre più amichevoli.
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Una volta, mentr’egli passava per via, il cinico Isidoro, in pubblico, a chiara voce lo aveva biasimato, perché aveva cantato bene i mali di Nauplio, mentre i suoi propri beni li amministrava male. E Dato, un attore di atellane, recitò il verso di un cantico «Papà stammi bene: stammi bene mammà!» facendo l’atto ora di bere ora di nuotare, per alludere, cioè, alla fine di Claudio e Agrippina: e poiché l’ultimo verso era «L’inferno vi tira pei piedi!», col gesto aveva indicato il senato. Quest’attore e quel filosofo Nerone si limitò a punirli col bando da Roma e dall’Italia, o perché non gliene importava niente dell’opinione pubblica o per stuzzicare gl’ingegni col farsi vedere risentito (Svetonio, Vita di Nerone, in Vita dei Cesari, cap. 39, §§ 5-6)
Ma, come dice l’oracolo d’Apollo, chi vede il mimo deve intendere il muto, e udire uno che non parla. E così si dice avviene a Demetrio il cinico. Disprezzava egli, come fai tu, l’arte del ballo, dicendo che il mimo è un’appendice del flauto, delle siringhe, e delle nacchere, che non conferisce niente alla rappresentazione con quei suoi movimenti irragionevoli e vani, e nei quali non c’è nessun pensiero; che gli spettatori sono affascinati da tutt’altro, dalla veste serica, dalla maschera, dal flauto, dai gorgheggi, dal bell’accordo delle voci; e che tutte queste cose son quelle che fan piacere la mimica, che per sé è nulla. Si trovò in quel tempo, che fu sotto Nerone, un mimo assai riputato, che, come dicono, non era sciocco, ma aveva a mente molte storie, e le gestiva benissimo: questi pregò Demetrio di cosa che mi pare giusta, di vederlo prima atteggiare, e poi biasimarlo; e si offrì di mostrarglisi senza flauto e senza canto e così fece. Imposto silenzio alle nacchere, ai flauti, ed al coro stesso, egli da sé solo atteggiò la tresca di Venere e di Marte: il Sole che fa la spia, Vulcano che sta in agguato, e te li acchiappa tutti e due nella rete, ciascuno degli altri dèi che sopraggiungono, Venere tutta vergognosa, Marte alquanto timoroso che prega, e tutto il resto di quella storia; e lo fece per modo che Demetrio, dilettatasene assai, diede una grandissima lode al mimo, gridando a gran voce: “Io l’odo quel che tu fai, non lo vedo solamente, e mi pare che tu parli con coteste mani” (Luciano di Samosata, Sulla danza, § 63)
Demetrio il Cinico vedendo in Corinto un ignorante che leggeva la bellissima tragedia di Euripide, Le Baccanti, e stava al nunzio che racconta il caso di Penteo, e il fatto di Agave, gli strappò il libro e lo lacerò dicendo: «Meglio che Penteo sia squartato una volta da me, che molte da te» (Luciano di Samosata, Contro un ignorante § 19)
[Svetonio è citato da Italo Lana (a cura di), Svetonio: Vite dei Cesari, Torino, UTET, 1952. Le traduzioni da Luciano sono di Luigi Settembrini (a cura di), Opere di Luciano, 3 voll., Firenze, Le Monnier, 1861-1862]
Enrico Piergiacomi