È passato da Roma al Teatro dell’Orologio Il vangelo secondo Antonio di Dario De Luca (Scena Verticale). Recensione
Nel sacramento del battesimo, dice la catechesi, risiede l’atto fondativo di tutte le Chiese cristiane. Lì sta l’atto di fede più cieco, l’abbandono meno consapevole, lì si manifesta il passaggio più vicino ai riti di iniziazione di ogni altro culto pagano. Ci viene chiesto – quasi sempre in qualità di neonati – di riporre l’intera nostra vita (e le opere che ne conseguono) nelle mani di Dio e del Cristo, salvo poi comprendere meglio, da grandi, il magico valore del libero arbitrio.
Se chiedessimo a una platea di spettatori quanti di loro sono stati battezzati, certamente le mani alzate sarebbero la maggioranza.
Nella Sala Orfeo del Teatro dell’Orologio di Roma è arrivata una nuova versione di Il vangelo secondo Antonio, denudata di quasi ogni orpello scenografico che caratterizzava la prima – che aveva visto il debutto a Primavera dei Teatri 2016 – per uscirne rinata, trasfigurata, finalmente in grado di esprimere una potenza performativa, testuale ed etica.
Padre Antonio (Dario De Luca), parroco della provincia calabrese, è un vero e proprio esempio di buon pastore: iperattivo e premuroso, con il polso fermo di chi sa di voler e dover comprendere i problemi di una comunità, si adopera per accogliere i migranti scampati all’ennesimo naufragio, interloquisce con il vescovo, dà ordini al giovane Fiore (Davide Fasano) e alla perpetua, la sorella Ricordina (Matilde Piana). Finché, cominciando da piccole dimenticanze e lievi incoerenze, non scoprirà di aver contratto il morbo di Alzheimer, che lo condurrà a una degenerazione rapida e dolorosa, interamente mostrata.
Solo un tavolino e un pouf campeggiano su una scena scarna, in cui un’intelaiatura di ferro battuto disegna gli spazi accendendo i vari segmenti con una fila di led. Sull’estremo fondale veglia un grande crocifisso, occhio onnipresente e onnisciente che a metà dello spettacolo verrà a sua volta denudato del Cristo, tirato giù da Padre Antonio come ennesima – e forse unica – anima da salvare, ora che la propria sta perdendo la ragione.
I due spettatori di questa dissoluzione della personalità divengono allora due figure-simbolo: da un lato c’è la famiglia, quella sorella che, all’inizio del suo sacerdozio, faceva fatica a dare del tu al fratello per paura di mancare di rispetto alla sua posizione; dall’altro c’è il credente, il giovane seminarista che fa di tutto per aiutare ma che in fondo – e qui sta la sottigliezza del ragionamento di De Luca – gioisce per l’opportunità ricevuta dal vescovo di ereditare la parrocchia del proprio maestro.
La costante presenza della croce (sulla scena e nei discorsi dei personaggi) ricorda a tutti il concetto del sacrificio e insieme quello della Fede, il pegno pagato da ogni anima devota al servizio di un compito in fondo mai svolto fino in fondo. Perché, parafrasando Tolstoj, in questa vita lavoriamo per la prossima, ma di questa vita non ricorderemo le giuste azioni, solo le scelte errate che ci avranno portato al giudizio del Creatore.
Maneggiando con abilità la retorica cattolica e, in maniera affilata, facendone emergere le criticità, il testo di De Luca riesce nell’intento di distribuire il piano etico su quello delle relazioni, rivolgendo la domanda sul libero arbitrio – che è il vero mistero della Fede – sulla crudele materialità delle azioni quotidiane. Sono molti, in sala, gli occhi lucidi. Qualcuno non resiste, si allontana dalla sala per piangere qualche lacrima. Perché tutti e tre gli attori, impegnati nel contrasto tra un testo piuttosto classico, un’interpretazione naturalista e però sullo sfondo di un ambiente scenico rarefatto, complottano per la messa a nudo della fragilità umana. Diverse sequenze – che a raccontarle qui suonerebbero quasi didascaliche – trovano potenza nella commistione tra dimensione umana (e quindi spirituale) introdotta dalle relazioni tra i personaggi e dimensione materiale (Heidegger la chiamerebbe l’esser-cosa, la cosità) messa a fuoco dai particolari della vita quotidiana rimescolati dalla decadenza cerebrale.
Pur se frutto di un’attenta ricerca anche sulle dinamiche del morbo di Alzheimer, l’operazione messa a punto da Dario De Luca va oltre e diventa così, grazie a una grande eleganza nella messinscena e nella direzione degli attori, una parabola complessa sulla religione, sul sacrificio, sulla malattia e sul potere. Facendo un azzardo di condensazione, potremmo dire che è innanzitutto una parabola sul corpo.
La decadenza cerebrale mette in disordine ogni tipo di certezza e riorganizza, malgrado tutto, i rapporti di potere, inverte le gerarchie, alla croce viene sottratta la grazia della ricompensa spirituale. E infatti proprio la croce resta lì appesa, liberando dell’icona solo la parte più umana, che ha ancora – dopo più di duemila anni di evoluzione – bisogno di essere scaldata, coperta, protetta dalle sue stesse terribili nudità.
Sergio Lo Gatto
Roma, Teatro dell’Orologio – Novembre 2016
IL VANGELO SECONDO ANTONIO
scritto e diretto da Dario De Luca
con Matilde Piana, Dario De Luca, Davide Fasano
musiche originali Gianfranco De Franco
scena e disegno luci Dario De Luca
audio e luci Vincenzo Parisi
assistente alla messinscena Maria Irene Fulco
costumi e assistenza all’allestimento Rita Zangari
realizzazione scultura Cristo Sergio Gambino
organizzazione generale Settimio Pisano
promozione Rosy Chiaravalle