Palomar, tratto dal romanzo di Italo Calvino è uno spettacolo ideato da Raquel Silva andato in scena in prima nazionale al Teatro dell’Orologio di Roma. Recensione
Un seno nudo, un gorilla albino, una costellazione. «Trovarti di fronte a qualcosa che non sai bene che cos’è», qualcosa di inaspettato, immenso, minuscolo, qualcosa che va visto, vissuto probabilmente, ma che non è comprensibile da dentro, in quanto può essere «compreso soltanto dall’esterno». Lo spettacolo Palomar, della compagnia italo-francese Pensée Visible (prodotto da Compagnia Fattore K e l’Associazione Pagaille), fa quest’effetto. Di fronte al contenuto teatro di carta allestito in una delle sale del Teatro dell’Orologio di Roma, abbiamo quasi l’impressione di scoprire, in noi stessi, una fame di visione che viene continuamente appagata e, al contrario negata, alimentata. A voler esser provocatori, non ci sembra perfettamente congrua la dicitura “testo di Italo Calvino”: sì, le tre storie sono tratte dall’omonimo romanzo, seguono l’ordine para-testuale a cui lo scrittore affida il tema e le variazioni.
Eppure quella ideata, diretta e manipolata da Raquel Silva non è soltanto una traduzione alla lettera di alcuni capitoli (oltre a due intermezzi tratti da Se una notte d’inverno un viaggiatore… e Ti con Zero); ben più approfonditamente questo spettacolo riesce a interpretare – visivamente, scenicamente e diremmo anche cinematograficamente – la forma romanzo adattandola alle creazioni di carta di Alessandra Solimene. Non variando una parola dal romanzo del 1983 (ottenendo dunque il difficile consenso degli eredi), la scelta delle immagini e delle molteplici prospettive del riquadro scenico tradisce l’impersonale del racconto e permette di compiere uno slittamento in favore del protagonista, così da entrare nella sua visuale personale guidati da e al contempo scavalcando il narratore; percepiamo la soggettiva dello sguardo, cambia il quadro e il primissimo piano sfuma in un campo lunghissimo, in movimento, all’interno della scatola magica stratificata da binari su cui far scorrere gli sfondi.
Quelle che si sviluppano, complice chiaramente la sensibilità di Calvino alla fine della propria carriera, sono tre storie in cui il protagonista Palomar, come il palombaro di cui porta il nome, affonda nella profondità dell’esperienza ma sempre attraverso una delicata, pensosa, nostalgica distanza. Ne intuiamo lo sguardo proprio attraverso la varietà dei disegni, in questa sorta di artigianale pre-cinema di gusto fanciullesco (meravigliandoci ad esempio per l’effetto moiré in cui una costellazione sembra davvero animarsi sotto i nostri occhi) e ne scorgiamo le connessioni con la storia raccontata attraverso una calda voce femminile, il meno possibile caratterizzata, quasi fosse una voce interiore, voce della nostra mente che ci avvolge mentre l’aspetto visivo si stratifica, recuperando una possibilità poco esplorata e tuttavia accessibile a tutti.
Silva, portoghese d’origine ma collaboratrice da diversi anni di Giorgio Barberio Corsetti, segue e focalizza questo lavoro sulla molteplicità dei piani legati a vista e udito. Nel primo per esempio, Il seno nudo, il problema nasce dalla visione di ciò che non andrebbe visto ma che invece è esposto. Come adattarsi nei confronti di una donna che in spiaggia riposa a seno scoperto? L’espediente «di poca importanza» permette di indagare come ci relazioniamo rispetto un oggetto del desiderio, senza esternare un interesse eccessivo o al persino ostentandone il rifiuto. Calvino ci conduce nelle maglie del proprio pensiero, e facendolo ci chiede di spostare l’attenzione. Allo stesso modo il teatro di carta di Raquel Silva sposta il nostro sguardo, lo fa slittare: non guarderemo più semplicemente il seno, anzi i seni, moltiplicati, ma ne osserveremo la trasformazione in un’immaginaria figura della mente, ballerina di can can, corpo di seno e gambe in movimento. Allora la concentrazione dedicata si giustificherebbe proprio in questa moltiplicata presenza stravolta, dal pensiero e dalle figure di carta. L’immagine non si annulla, ma da oscena (ob-scena) prende prepotentemente il diritto di appartenere alla scena dell’immaginazione, o meglio del teatro.
Il rapporto tra reale, immagine e parola, tra figura primordiale e origine del linguaggio è al centro del secondo racconto (il primo nella stesura del lavoro ci raccontano e probabilmente per questo meno immaginifico sul piano scenico rispetto gli altri due che invece brillano continuamente per le assonanze tra testo e rappresentazione). Il gorilla albino riesce a tradurre efficacemente più di un passaggio chiave, come l’incipit in cui le ombre di volti si profilano tra il proscenio e il fuoco del nostro interesse, il gorilla; un po’ come se tanto il nostro sguardo quanto lo stesso Palomar dovessero oltrepassare il rumore visivo facendosi largo tra la folla. O ancora il momento rivelatore in cui dal pneumatico, oggetto feticcio che stringe tra le braccia, il gorilla riesce a compiere per proprietà transitiva il passaggio dalla forma rotonda al suono vocalico “O”, collegando dunque al suono anche la propria identità come luogo d’origine.
L’universo come specchio infine, il cui contenuto delicato indaga il rapporto problematico con il mondo, è un racconto di distanziamento, connotazione e riconoscimento. In quest’ultima storia anche le sfumature di colore acquisiscono significato, Palomar è assunto come figura monocromatica, con un colorito sempre tendente al grigiastro, in contrasto negativo col resto del mondo (quasi a volersi annullare) finché non avrà compiuto la propria riflessione. Riflessione non soltanto astratta, rivolta all’universo, ma alla propria stessa persona, a una struttura che in scena diventa ossea, circolatoria, muscolare, fino a diventare mappa ontologica del proprio percorso in un fluido movimento, ottenendo la vittoria della conoscenza di un ricco sconfinato paesaggio.
Uscendo dal teatrino dipinto con pesci e pavoni da Alek Favaretto, Raquel Silva ci congeda accompagnandoci con un’ultima citazione che sembra quasi esternare la direzione intrapresa durante tutto il lavoro: «Queste frasi si raccontano con i frammenti, ma per farlo bene dovrei ricordare cose che ho dimenticato. Fatelo voi, immaginate».
Viviana Raciti
Teatro dell’Orologio, Roma – novembre 2016
PALOMAR
testo Italo Calvino
regia Raquel Silva
disegni e scenografia Alessandra Solimene
musica e disegno del suono Daniela Cattivelli
luci Marco Giusti
sguardo esterno Elisabetta Scarin
manipolazione e interpretazione Alessandra Solimene e Raquel Silva
costruzione del teatro Alek Favaretto
costruzione Alessandra Solimene e Raquel Silva
produzione Fattore K, Association Pagaille, Compagnia Pensée Visible
con il sotegno di
L’Espace Périphérique (Mairie de Paris – Parc de la Villette) – Parigi
Théâtre aux mains nues – Parigi
Association Arcade & Cie – Parigi 19
Théâtre Isle 80 – Avignone