Una giornata al Riccione TTV Festival sul passato e il futuro della sperimentazione teatrale italiana del secondo Novecento, da una giornata di studi a due film che raccontano il teatro.
«Sperimentiamo una difficoltà intrinseca nel parlare di estetiche, e questa è la cartina di tornasole di un grande disordine che stiamo vivendo. Il discorso in questi anni è stato occupato interamente da questioni economiche, quasi un’arma di “distrazione di massa”. Bisogna tornare a parlare di quello che accade sulla scena. La spinta innovatrice che inizia tra il 1959 e il ‘63 oggi si trova a un punto di svolta». È con queste premesse lanciate da Rodolfo Sacchettini che si è aperta la tavola rotonda Dalle avanguardie al post drammatico durante la 23° edizione del Riccione TTV Festival. Una giornata di studi a cui hanno partecipato critici e studiosi (curata da Graziano Graziani e con Lorenzo Donati, Gerardo Guccini, Massimo Marino, Rodolfo Sacchettini, Annalisa Sacchi, Attilio Scarpellini) riguardo passato e futuro della nuova scena italiana, quel “nuovo teatro” che provò nella seconda metà del Novecento a distanziarsi dalla scena ufficiale (rigetto che proveniva anche da un’indifferenza, un rifiuto) e che fu oggetto di osservazione da parte di personalità come Giuseppe Bartolucci o Nico Garrone.
Durante la giornata le riflessioni hanno provato ad attraversare quei decenni di «rinnovamento di un linguaggio che rispondeva e reagiva alle risposte della persona», che ovvero assumeva su di sé istanze politiche e ideologiche senza sbandieramenti di partito, accennando tanto alle questioni estetiche – a partire dallo sconfinamento delle arti plastiche verso il tetro e viceversa la direzione della scena verso un teatro-immagine – quanto alle problematiche concernenti la ricezione, la fatica che quei luoghi hanno verificato nel loro permanere a lungo nel tempo e la mancanza odierna di una comunità formata che si senta chiamata in causa da un’opera.
Gli anni in cui il teatro si spostava dalla scena ufficiale e, ad esempio a Roma, approdava nelle cosiddette “cantine”, contando come protagonisti (tra gli altri) Carmelo Bene, Simone Carella, Manuela Kustermann e Giancarlo Nanni, Giorgio Barberio Corsetti, sono anche gli anni in cui la critica si trasforma, muta la propria natura, ridefinisce l’orizzonte del proprio sguardo («uno sguardo discreto – riporta Marino – ovvero capace di discernere i vari elementi e quindi di ricomporli assieme») a partire dal Convegno di Ivrea del 1963 e quello del 1967 nel quale fu redatto il cosiddetto Manifesto di Ivrea, firmato da Franco Quadri, Edoardo Fadini, Ettore Capriolo e Giuseppe Bartolucci.
Proprio quest’ultimo, assieme a Nico Garrone e Maria Bosio negli Ottanta provò a ricostruire le fila di quella che fu l’esperienza della sperimentazione romana delle avanguardie ne L’altro teatro, film in tre episodi (presentati questi a puntate all’interno del Festival nella sezione Il cinema racconta il teatro), dando voce ad alcuni protagonisti di quel tempo (da un lato per vocazione e dall’altro per necessità dato che già nel 1980 quelle esperienze stavano affrontando il proprio declino).
I tentativi di storicizzazione, pure dibattito del convegno, però trovano un’interessante frizione con un altro film, non a caso diretto da Matteo Garrone, in dialettica vent’anni dopo rispetto il film pensato dal padre, L’estate romana. Non un documentario ma un film – secondo le parole del regista romano – «tra due generazioni a confronto, totalmente libero», dove la poesia si scontra con una pratica svuotata, il viavai del Lungotevere con una città fasciata, soffocata e asfittica in attesa del Giubileo; l’incavo e la bocca costretta di Rossella Or, il suo sognare una nuova possibilità di far teatro e l’irrisione, la realtà cruda e sfuggente con cui la fa scontrare Simone Carella. C’è una scena sintomatica di quel peso che portiamo ancora addosso: l’arte, goffo mappamondo di scena, mezzo dipinto e mezzo rovinato dalla pretesa di uscir fuori da una porta troppo stretta, viene caricato sul tetto della macchina. È venuto male, non serve più per lo spettacolo, anche se è costato mesi di lavoro, non lo vogliono i cinesi di piazza Vittorio, forse qualcuno ai Cancelli di Ostia, allora si viaggia, si continua ad andare, verso fuori.
Viviana Raciti