In questi ultimi anni stanno fiorendo in tutta Italia le attività di formazione dello spettatore. Alla ricerca di una vera e propria rete, qualche riflessione sull’importanza del dialogo.
Dopo mesi di durissimo viaggio in mezzo alle più impervie traversie, un giovane ossessionato dalla ricerca del senso della vita raggiunge una cima remota dove pare si sia ritirato in meditazione il più saggio dei maestri. Allo stremo delle forze, con il corpo coperto di piaghe e geloni, l’uomo si avvicina al vecchio – che se ne sta raccolto nella posizione del loto – e quasi non riesce a scandire la domanda fatale. Il maestro apre lentamente gli occhi, poi li richiude: «La vita è come un fiume», risponde. Il giovane è completamente smarrito, interdetto. «Come un fiume? Ma che significa?», chiede quasi disperato. Il maestro sgrana gli occhi, più terrorizzato di lui: «Perché, non è così?!».
In questa vecchia barzelletta c’è forse uno dei pensieri più profondi sull’insegnamento e sulla formazione, che si rinnova ogni volta si cerchi di trasmettere qualcosa che non sta semplicemente scritto sui libri, ma è invece frutto dell’esperienza vitale.
Una domanda che spesso ci poniamo è se la critica sia qualcosa che può essere insegnato. Forse no, non propriamente, perché è un atto alla base di una visione del mondo, una spinta a dividere (critica deriva infatti dal verbo greco “krino”, che porta quel significato), ad aprire un bivio di ragionamento e di scelta rispetto al panorama del sensibile e del percepibile.
È evidente che negli ultimi quindici anni la migrazione del ragionamento critico da carta stampata a Web ha moltiplicato gli spazi di riflessione, restituito respiro e vitalità al dibattito intorno alle arti; l’accesso massivo alla Rete e la costante semplificazione dei dispositivi ne ha incoraggiato un allargamento incondizionato, arricchendolo e però complicandolo per via di una fondamentale degerarchizzazione. Soprattutto ora che i social network sono così potenti e onnipresenti, ora che diffusione di narrazioni private e trattamento di informazioni pubbliche si ibridano, la qualità del dibattito è messa in crisi alla radice. Ci sentiamo tutti più vicini, più in contatto, più appiccicati alle materie che discutiamo; i commenti sulle bacheche oscillano tra una tendenza all’aggregazione e al consenso e una lotta per far uscire una voce dal coro.
Forse perché, quasi inconsciamente, ci rendiamo conto che la grande personalizzazione sbandierata dai social media riguarda forse il contenuto – anch’esso tuttavia minacciato dagli agguati dell’omologazione – ma molto meno la forma. I software sono ormai il terreno di questa coltura batterica e, per il semplice fatto di essere operati da una macchina, ci pongono tutti sullo stesso piano. Ed ecco che il discorso critico rischia di diventare autoreferenziale e piatto, acritico alla sua stessa base. Personalizziamo ogni esperienza virtuale al punto che ci sembra che i software ci somiglino, mentre siamo noi a somigliare a loro.
E allora mai come ora c’è bisogno, in questo nostro ambiente, di un rapporto che renda onore alla profonda dimensione umana delle arti sceniche, un contatto vitale e non solo virtuale. La nostra generazione – spesso legata in maniera feconda a certi esponenti di quella precedente – ha risposto a quest’esigenza creando negli anni un fitto laboratorio di sperimentazione delle pratiche, che vede nell’incontro tra spettatori il tesoro più prezioso. Le esperienze formative sono sempre tali per entrambi i termini della comunicazione. E allora si sono moltiplicate le occasioni.
Dai laboratori condotti all’interno delle università a progetti ancora più strutturati fino a seminari intensivi, redazioni intermittenti, convegni partecipativi e percorsi formativi nelle scuole, gli esempi sono numerosi e incredibilmente differenziati.
Le attività che questo stesso giornale ha da qualche attivato, organizzando workshop e laboratori nei contesti più diversi, si inseriscono dunque in un panorama molto più ampio che in molti (non tutti, purtroppo) territori vede impegnate realtà diverse alle prese con la stessa vocazione, quella di “spacciare” cultura teatrale nei più vari contesti.
Esistono e resistono di certo quegli organismi che puntano a una vera e propria formazione professionale, come l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico che propone un master in critica giornalistica, o percorsi intensivi volti a sviluppare determinate abilità in questo o quell’ambito di competenza specifica. Ma di grande importanza sono state, ad esempio, quelle esperienze generative come i laboratori di Massimo Marino al Metastasio di Prato e di Andrea Porcheddu allo IUAV e alla Biennale di Venezia (culla rispettivamente di Altre Velocità nel 2005 e Il tamburo di Kattrin nel 2009) e altri esperimenti nati dalla e rivolti direttamente alla pratica di osservazione del teatro, che confermano come, al di là della pretesa di formare professionalità, si possa e debba andare nella direzione di una formazione dello spettatore. Una formazione a doppio senso, in cui si abbatte ogni ovvia direzionalità. In cui davvero è spesso l’allievo a insegnare al maestro.
Singoli professionisti e intere redazioni si stanno nel tempo sempre di più aprendo alla condivisione dei propri strumenti, a volte in maniera totalmente indipendente, a volte grazie a qualche prospettiva più lungimirante. È il caso di Stratagemmi, che – grazie a un solido appoggio della Fondazione Cariplo e, di recente, al bando Funder35 – sta riuscendo a mettere a sistema un percorso formativo nelle scuole superiori. Ed è il caso, ancora, di Altre Velocità, che ha messo in fila una lunga serie di collaborazioni con le istituzioni culturali emiliano-romagnole, diventando un punto di riferimento non solo regionale ma nazionale, grazie anche al riconoscimento del Mibact alla prima infornata dei nuovi finanziamenti FUS, nel capitolo della promozione e formazione del pubblico.
Ma questi sono solo alcuni esempi, ché siamo certi che a tutte le latitudini la sperimentazione formativa sta dando i suoi frutti, alla ricerca di strategie di apertura in grado di tracciare i percorsi di ragionamento intorno alle arti e alla cultura. Sarebbe utile a tutti pensare a una soluzione di concerto, che metta realmente in rete tutte queste esperienze, fornendo una mappa esaustiva di questo assiduo lavoro sullo spettatore.
Intanto ci fa piacere chiudere dando conto della terza tappa di Crescere nell’assurdo, appuntamento curato da Altre Velocità nell’ambito del progetto Crescere Spettatori, che in queste prossime ore (dal 14 al 18 novembre) animerà la città di Messina con incontri, tavole rotonde ed esplorazioni del territorio (qui il programma completo).
È incoraggiante per tutti noi credere in questa prolifica espansione, che tanto somiglia alla faticosa salita alla montagna. Il percorso è impervio ma fondamentale. Ed è ogni volta una sorpresa. Di fronte ai partecipanti – quale che sia il target anagrafico o il contesto, tra festival, università e teatri indipendenti – ci si trova spesso a sgranare gli occhi come farebbe l’eremita, scoprendo che anche la posizione più granitica può essere in un attimo messa in crisi. Tornando così alla base del pensiero critico. Ché, come le stesse arti ci insegnano, il senso – se c’è – sta nel processo più che nel risultato.
Sergio Lo Gatto