Filrouge è un workshop di Teatro e Critica, all’interno di Romaeuropa Festival, dedicato allo storytelling e alla critica teatrale. Qui le info sul progetto sul progetto di formazione. I partecipanti al laboratorio e i formatori hanno intervistato il direttore artistico di Romaeuropa, Fabrizio Grifasi, pubblichiamo qui la conversazione.
Romaeuropa si vuole interfacciare con la cultura d’élite quanto con quella di massa (anche se questo non è il termine appropriato). Programmaticamente come si pone il festival davanti a questo doppio pubblico? Chiamiamolo doppio anche se sappiamo che le sfaccettature sono anche altre.
Che intendete per programmaticamente?
La direzione artistica come si rivolge a questo doppio pubblico che effettivamente è quello del Romaeuropa che si incontra in spazi come il Monk o come nelle scorse edizioni il Brancaleone?
Il lavoro di Romaeuropa Festival non può che essere un progetto artistico ed è quindi con gli artisti che si rapporta maggiormente, che aiuta nella condivisione dell’opera; il rapporto con il pubblico viene sempre un minuto dopo.
Per esempio, io programmo il lavoro di LODHO dedicato a Tom Waits non perché serva qualcosa di popolare da mettere al Monk, ma perchè è intelligente, sorprendente, perché è fedele e al tempo stesso ironico rispetto a una figura riconosciuta come Tom Waits. Per programmarlo però ho bisogno di trovare la collocazione adatta a quel progetto artistico. A volte ci riusciamo, a volte è impossibile, perché Roma vive uno stato di emergenza per ciò che riguarda gli spazi dedicati alle arti performative e, dopo la chiusura di luoghi come il Circolo degli Artisti, anche quelli per la musica dal vivo. Pertanto se io ho bisogno di spazi con 300–400 posti, con un minimo di palcoscenico decente per portarci alcune band, devo rifarmi ai pochi spazi disponibili.
Che hanno regole, esigenze, alle quali adattarsi…
Sì, non è semplice: ad esempio al Monk bisogna fare la tessera Arci, quindi in ogni caso ci si deve registrare il pomeriggio. Insomma è un po’ laboriosa come cosa, anche perché la gente fa altro nel corso della giornata… Io parto sempre dal principio che tu al pubblico gliela devi semplificare la vita, per noi è proprio una specie di mantra, quando ci rendiamo conto che abbiamo dei problemi di farraginosità nel farci raggiungere, nel prendere i biglietti… e poi bisogna creargli anche un contesto di condivisione, voi lo raccontate bene nel pezzo: tu arrivi al Monk, ti puoi prendere una birra, ti puoi rilassare, c’è un altro tipo di rapporto… All’India invece, mentre teatri simili in Europa sono costruiti con attorno un ristorante o un bar, abbiamo dovuto portare noi l’ApeRomeo perché l’alternativa era solo un distributore di merendine… Anche questo fa parte dell’esperienza: tu vai all’India e mentre aspetti di entrare credo che sia piacevole mangiarsi anche una zuppetta di ceci e castagne, che è pure buona.
Quindi la questione degli spazi non è di forma ma di contenuto, perché ha a che fare con l’esperienza, con il modo di presentare gli artisti, con le condizioni tecniche che possano di conseguenza garantire al pubblico la condizione di visione pensata dall’artista. Ci sono spettacoli che sto cercando di portare a Roma da anni ma gli spazi attuali non me lo permettono.
Come potrebbe intervenire Romaeuropa nella riqualificazione degli spazi?
Noi abbiamo fatto un unico tentativo, quello del Palladium, che è durato dieci anni, ma Roma è una città molto rigida e la situazione oggi si è ancora più incancrenita: le procedure sono assurde per un festival come Romaeuropa e per una piccola associazione culturale quasi proibitive.
La questione degli spazi non è solamente concettuale o legata a una scelta estetica, ma assolutamente essenziale: altera spesso la percezione e il rapporto con la creazione artistica. Perché è attorno agli spazi che si snoda e si articola un’esperienza di condivisione, e l’esperienza artistica non può non essere tale. Questo è uno dei motivi per cui l’Angelo Mai, il Kollatino Underground, il Rialto Santambrogio e tutta una serie di strutture hanno avuto un ruolo importantissimo, un punto d’incontro che ha permesso a una generazione artistica di crescere.
E il tentativo con Officine Marconi?
In quel caso si trattava di uno spazio privato e abbiamo dovuto noi convincere il proprietario a rimetterlo a norma. L’idea, di accordo con l’amministrazione dell’epoca, era di fare una specie di factory, un luogo di residenza, attraversabile, flessibile, che fosse una cerniera tra un quartiere molto popoloso come Cinecittà e i Castelli Romani. Si tratta di una zona priva di servizi su cui per primo aveva lavorato Ascanio Celestini con il Festival Bella Ciao; poi abbiamo fatto la follia di portarci Sul concetto di volto nel figlio di Dio di Romeo Castellucci, che era perfetto e rispondeva a un progetto di apertura e di attraversamento.
Durante i nostri incontri qui all’Opificio, circondati dalle locandine storiche, abbiamo notato come sia cambiato negli anni il vostro modo di comunicare, sia visivamente, sia nelle altre forme. La discronia tra l’idea artistica e quella del pubblico, che viene subito dopo, vale anche per la vostra comunicazione?
Tutti noi cambiamo perché il nostro tempo cambia e con esso anche il linguaggio. Romaeuropa è in parte fedele a quello che era 30 anni fa, ma è anche altro ed è bene che sia così. Se comunicassimo ancora come nel 1989 sarebbe un vero problema. È cambiata l’idea di comunicazione grafica. Inizialmente Monique Veaute e Giovanni Pieraccini chiedevano di realizzare le locandine a una generazione di artisti emergenti come Guarienti, Tilson, Dorazio, ma anche quella che negli anni ‘70-’80 a Roma era già molto matura, affermata. Nel tempo la tendenza è invece diventata quella di raccontare ciò che facciamo e così abbiamo creato un pubblico, un’attenzione, su artisti meno noti. Una parte del nostro lavoro oggi è di mediazione culturale, di cui il contemporaneo ha bisogno; per esempio nella newsletter inseriamo i programmi di sala e le interviste agli artisti, così che lo spettatore possa farsi un’idea di quello che andrà a vedere, ma abbiamo sviluppato anche il lavoro sul web che ha a che fare esattamente con quella idea fissa di raccontare: filmiamo, postiamo, facciamo dirette Facebook.
Nella stessa direzione vanno tutti i percorsi formativi dedicati all’incontro con il pubblico; ognuno di questi elementi — formazione, sguardo, comunicazione, pubblicità — ha lo scopo di avvicinare.
Tornando alla questione degli spazi, come potrebbe modificarsi il lavoro di Romaeuropa se avesse un luogo dedicato in cui sviluppare progetti residenziali? Ci sono alcuni spazi a Roma che sono in uno stato degradato o peggio chiusi, come il Valle…
Il Valle è un teatro in cui noi abbiamo fatto delle cose sublimi, una su tutte il Woyzeck di Wilson e Tom Waits [2002], fu un miracolo… 22 teli che salivano e scendevano, manovrati a mano, perchè non c’era niente di automatizzato. Però paradossalmente la cosa che ci manca di più non è un teatro vero e proprio, ma la possibilità di lavorare con gli artisti: uno spazio di produzione, uno spazio prove. Ci manca enormemente non avere qui Daria Deflorian e Antonio Tagliarini per due mesi a lavorare prima del debutto. Per noi è un’amputazione. In parte con l’Opificio siamo riusciti a fare alcune cose e la vostra presenza qui lo dimostra. Ma questo è uno spazio totalmente privato, in affitto.
Tra l’altro la questione degli spazi credo sia legata troppo al Novecento: “lo spazio del direttore…”. Ma le nostre città, le nostre società non sono più così. È chiaro che c’è bisogno di una coerenza artistica, motivo per cui quando avevamo la gestione del Palladium eravamo in rete con esperienze come ZTL e altre, nate dal territorio indipendente.
Nella programmazione abbiamo visto negli anni artisti italiani con i propri lavori di compagnia e altri cui vengono affidati progetti speciali. Come viene operata la vostra scelta?
Alcuni artisti decidiamo di produrli cercando loro spazi di residenza, con altri operiamo diversamente: ad esempio Antonio Latella, per parlare di un grande regista europeo, è stato nel programma soltanto una volta, perché aveva un progetto specifico del Schauspielhaus Wien su Le Benevole, in lingua tedesca, ossia una parte del suo lavoro che in Italia nessuno conosce. È meno interessante che noi proponiamo spettacoli di Latella regolarmente all’interno delle programmazioni dei maggiori teatri italiani.
Parliamo dei progetti di visione e formazione per under 18, ad esempio Spring Roll alle Carrozzerie N.o.t., C&C Company, e il percorso di formazione per le scuole e studenti universitari. C’è in questo senso un programma per un futuro pubblico di giovanissimi?
Vi ringrazio molto per questa domanda. Ho incontrato Cristina Cazzola — la direttrice artistica di Segni d’Infanzia, un’esperienza straordinaria a Mantova — per confrontarci proprio su questo. Ci siamo resi conto che una parte del pubblico di Romaeuropa è cresciuto, ha dei figli, e sono cambiate le necessità. Come è accaduto tre anni fa con Hakanaï di Adrien M & Claire B, quest’anno con Dark Circus pur non avendo annunciato uno spettacolo per l’infanzia, il sabato e la domenica c’erano solo famiglie con bambini. Questa cosa ci ha fatto pensare, ci siamo resi conto che esiste un pubblico di Romaeuropa che va a trovarsi all’interno della programmazione alcune cose che ritiene possano andar bene per i propri figli.
Mi piacerebbe molto aprire una grande finestra di creazione contemporanea rivolta a una fascia di età a partire dai 4–5 anni, che abbia sia una parte laboratoriale (per genitori e bimbi), sia una parte di programmazione dedicata.
Poi veniamo a quello che mi chiedevi in maniera più diretta: il lavoro con le scuole. Questioni complesse, perché noi non facciamo una stagione, facciamo un festival, in più un festival che si svolge da settembre a fine novembre quindi ci inseriamo con difficoltà nei programmi formativi.
Redazione Filrouge (Edoardo Borzi, Valeria Belardelli, Valentina Cruciani, Carla Di Donato, Chiara Di Macco, Sabrina Fasanella, Doriana Legge, Elena Ciciani, Diana Morea, Giulia Pilieci, Pier Lorenzo Pisano)