Aspettando RIC Festival, la prova di Black Reality all’interno di The Book of Blood. Storytelling in collaborazione con ATCL. Giorno #1
In mare, gente vicina, qualcuno dà un segnale di pericolo – c’è acqua all’interno dell’imbarcazione, toglietevi un indumento per utilizzarlo come spugna, strizzate così. Mare che culla, mare che prende, mare che è gioco mare che diviene ultimo talamo. Giro lo sguardo e dal palco, abitato da alcuni ragazzi di Black Reality che col teatro hanno un po’ di esperienza, incontro quello di alcuni giovani africani rifugiati. Due in particolare saltano all’occhio: sono in prima fila, lei, mani che coprono gli occhi per un sentimento ancora difficile da gestire, lui invece riprende tutto col telefono; usando una mano, perché l’altra è sulle spalle di Jennifer. Mette distanza, ma capisce il valore del ricordo. Due chiavi per il nostri primo giorno a Rieti, del quale ci sperimenteremo narratori a più voci. Collezionando appunti di sguardi, di scene tagliate, inaspettate visioni, tra lingue diverse e tradotte tre quattro volte, parole testimoni di un percorso, scritte con un inchiostro che per tutti sia uguale.
«Iniziando a progettare la III edizione di RIC 2016, il primo pensiero è stato condizionato da tre grandi traumi che ci hanno segnato quest’anno: la chiusura della frontiera in Ungheria, passando per Brexit fino ai terremoti dello scorso 24 agosto. Sentivamo la necessità di dedicare un intero festival a ragionare intorno al fenomeno delle migrazioni contemporanee. Non si trattava soltanto di creare un percorso che avesse il proprio centro su questioni legate all’interculturalità, quanto quello di trovare argomenti e pratiche reali per capire come gestire con i nostri strumenti teatrali, queste emergenze».
Isabella Di Cola, responsabile dei progetti speciali dell’ATCL, racconta così l’incipit del festival reatino Invasioni Creative a pochissimi giorni dal debutto. Un progetto nel quale l’azione concreta significa coinvolgere una moltitudine di associazioni sociali del territorio, ma significa anche e soprattutto riflettere a partire dal concetto di accoglienza e di distanza, cercando le modalità per accorciare la seconda mantenendo intatta la pluralità delle voci insite nella prima. Identificando come una delle primarie differenze sia nell’idea di casa e, ancor più a fondo, in quella mancanza che stimola la ricerca di una stabilità, di un luogo intimo in cui potersi sentire al riparo, l’intenzione diviene una corrente biunivoca tra il dentro e il fuori, tra il rendere casa un teatro e teatro una casa. Di queste due linee, la seconda vedrà due spettacoli (Albania casa mia di Giampiero Rappa e Oltremare diretto da Giles Devere Smith) andare in scena in tre abitazioni, due delle quali donate ai centri SPRAR (Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e i Rifugiati) e una appartenente a un cittadino reatino.
La prima, invece, sulla quale ci soffermeremo nello specifico in questi primi giorni, si sta sviluppando in The Book of blood, un progetto (che giunge con questa alla su undicesima edizione nel mondo) organizzato dal collettivo britannico Leibniz diretto da Ernst Fischer ed Helen Spackman e rivolto a individui e comunità i cui diritti umani siano stati lesi, ospitandoli e integrando nella performance finale (che avverrà a conclusione di RIC il prossimo 9 ottobre) le singole specificità artistiche e culturali. Durante questa settimana tra le associazioni che invaderanno il Teatro Flavio Vespasiano (Caritas Diocesana Rieti, Consorzio sociale Pegato S.I.T., Arci Rieti, Associazione Arabi Insieme, Associazione Donne Arabe – Salsabil, Mahaty Art), anche la romana Officina di Teatro Sociale Black Reality che proprio oggi si è incontrata con alcuni ragazzi di varia nazionalità provenienti dagli SPRAR di Rieti e di Cantalice. Dopo un training in cerchio, il gruppo mostra parte di uno dei loro lavori generando fortissime sensazioni da parte dei novelli spettatori, molti dei quali non solo non avevano mai avuto esperienza di pratica teatrale ma forse non erano mai riusciti realmente a confrontarsi con il trauma conosciuto lungo la propria esperienza, e che la scena ripropone loro. Ma al di là di quella reazione presentata in apertura, di cui proviamo a lasciare una traccia, emotiva, delicata e fortissima assieme – assolutamente da rispettare e preservare – ci sembra indicativa la generosa testimonianza da parte di uno degli altri ragazzi, Khurram, rifugiato e ora interprete presso lo SPRAR di Cantalice, in merito alle possibilità che il teatro si faccia lente della realtà anche di fronte a qualcosa di non comprensibile perché troppo doloroso o perché estremamente distante dalla propria cultura.
«The play was awesome. I work in a project at the SPRAR and, you know, sometimes the guys tell many stories to the group, to the psychologists about this kind of experiences, and they always cry. I have a personal feeling about the cry, they got through many different ways and had many difficulties to come here, you don’t really know what happened to them to come here. I come from a different culture and now I can truly understand it because they show everything during this twenty-minutes-play. The synchronization of all the movements, the ability to stay together, were very beauty and strong. During the play I almost stood up from my chair to join them. Thank you».*
Viviana Raciti
* [Lo spettacolo è stato meraviglioso. Io lavoro in un progetto dello SPRAR e, sapete, i ragazzi a volte raccontano molte storie al gruppo e agli psicologi riguardo questo tipo di esperienze, e piangono. Nutro un sentimento personale nei confronti di questa reazione, loro hanno attraversato tante difficoltà per arrivare qui, non lo puoi sapere veramente cosa sia stato per loro. Io provengo da una cultura differente e solo ora posso capirli sul serio perché in questi venti minuti di spettacolo loro sono riusciti a mostrarci tutto. La sincronia di tutti i movimenti, la capacità di stare assieme sono state molto intense e potenti. Durante quei minuti mi sono quasi alzato in piedi dalla sedia per raggiungerli sul palco. Grazie]