Aspettando RIC Festival, intervista a Helen Spackman e Ernst Fischer del collettivo Leibniz. Giorno #3, in collaborazione con Atcl
In attesa di continuare a seguire il lavoro insieme ai vari gruppi che stanno abitando il Teatro Flavio Vespasiano in questi giorni, dedichiamo il nostro terzo diario a esplorare cosa stia attorno e dietro a The Book Of Blood (Libro di sangue) con i suoi creatori, Helen Spackman e Ernst Fischer. Il progetto, che è alla sua 11° edizione (di cui questa è la terza italiana dopo Anzio nel 2009 e Pergine nel 2014), si presenta quasi come un festival dentro il festival, dalla struttura fluida e aperta alle proposte dei partecipanti. I due artisti sottolineano inoltre come, nonostante la scelta esplori «i contenuti della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani in relazione alle esperienze, limitazioni e pressioni subite da individui e comunità ai margini della società», le tematiche che emergono di volta in volta dalle varie performance proposte, non necessariamente hanno una diretta corrispondenza con gli aspetti più estremi relativi alla mancanza di diritti, non necessariamente debbano riguardare la guerra, sofferenza e morte o il bisogno di trovare sicurezza e asilo.
I primi pensieri che hanno innescato la riflessione e dunque la creazione della performance risalgono al tempo di una conferenza a Londra, nel novembre del 2005, un dibattito nato poco dopo i conflitti legati alla seconda Guerra del Golfo. Inizia a raccontare Ernst, «anche a Londra ci fu una grande protesta contro l’ingresso in guerra. Ancora una volta ci veniva chiesto quale fosse il ruolo, la funzione delle arti. Contemporaneamente si svolgeva una conferenza di studi internazionali chiamata Performing Human Rights, che avviene ogni anno in una nazione differente e che, per tre o quattro giorni animò Londra con una serie di interventi accademici e performativi. Il tema di quell’anno verteva su come potessero contribuire le arti performative alla battaglia per i diritti umani e, viceversa, come potessero invece i diritti umani influenzare la performance. E poi c’è un’altra motivazione, estremamente personale, che però contiene il primo seme della nostra performance. Avevo un vicino di casa, poeta, con il quale si parlava spesso di arte; ricordo che una volta disse qualcosa riguardo la voglia di scrivere un poema con il sangue. Inizialmente mi vennero in mente le tradizioni popolari in cui il Diavolo proponeva di firmare un patto col sangue: il terrore per quel legame inscindibile perché quella firma è fatta con ciò che sostanzia la tua vita. Decidemmo così di ribaltare la negatività di quel concetto e simbolicamente di impegnare la nostra vita artistica a riscrivere con il sangue la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Presentammo una prima versione di studio nel 2006 presso lo Human Rights and Performance Festival (PSI) #12 a Londra».
Continua Helen a raccontare come quel primo momento generò tutta una serie di incontri durante i quali focalizzarono ulteriormente il concetto centrale, ascrivendolo alla figura dello spettatore che sarebbe diventato egli stesso performer: «all’inizio eravamo molto più rigidi, ovvero pensavamo che non si potesse assistere alla performance senza condividere fisicamente una goccia di sangue. Ma non funzionò perché la gente entrò lo stesso. Probabilmente non era così importante, forse quella era un’imposizione eccessiva. Del resto alla base di questa scelta vi è il fatto che il sangue, il suo colore, è uguale per tutti. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non è esente da problematiche e noi abbiamo bisogno di un ideale che vada accrescendosi».
Le istituzioni si sono mai poste in conflitto rispetto al progetto? Sorprende constatare quanto proprio in Occidente, anzi, in Inghilterra abbiano avuto questo tipo di risposta negativa. Risponde Ernst: «Non è tanto un problema di sicurezza. Una delle prime difficoltà (e la grande delusione che ne conseguì) con cui ci siamo dovuti scontrare è stata quando abbiamo incontrato Amnesty International al suo quartier generale a Londra, riguardo la possibilità di mettere in scena lì la performance. Non ci diedero una risposta immediata; il rifiuto arrivò alcuni giorni dopo, motivato essenzialmente dalla mancanza di un copione scritto. Era chiaramente una scusa. Sono certo che il problema fosse il sangue. Anche in seguito, incontrammo in università un business advisor che inizialmente si era mostrato entusiasta all’idea e si propose di trovare dei sostenitori economici per il progetto. Ma quando si entrò nei dettagli e scoprì fino a che punto eravamo disposti a coinvolgere gli immigrati e quanti altri erano stati vittime di una mancanza di diritti, iniziò a tentennare. All’incontro successivo ci propose di cambiare il titolo e ci suggerì addirittura di lasciar perdere l’idea del sangue, il cuore del nostro progetto, proponendo invece di chiedere agli spettatori di firmare con una penna una copia della Dichiarazione. Una raccolta firme, insomma. Credo che alla base ci siano una serie di differenze e risposte culturali diverse riguardo al sangue, molti hanno un approccio traumatico, ma in Gran Bretagna c’è una sorta di riservatezza, di attitudine paurosa nei confronti del sangue. Un po’ come il problema dell’immigrazione, puoi anche prenderlo a cuore ma non vuoi che entri a far parte dei tuoi problemi. Se si discute della questione Diritti Umani non si può negare la sofferenza, il dolore, il sangue, la morte; sono parte di un unico discorso. Da quel momento decidemmo che in ogni caso la performance sarebbe stata inserita sempre all’interno di un’occorrenza artistica – o culturale – in grado di comprendere l’intero percorso». L’unica eccezione è stata a Chelsea, dove il progetto fu proposto, in maniera spontanea all’interno dell’università e sponsorizzato da un dottorando che stava facendo una ricerca sulla psicologia per le arti dello spettacolo».
Completamente diversa fu invece l’accoglienza quando presentarono il progetto in Cile, nel Parco de la Bandera, al cui interno vi era un’antica casa delle torture. «L’avere a che fare con il duro regime e i desaparecidos poneva l’intera comunità locale di fronte un’emergenza quotidiana, credo che anche per questo motivo il pubblico fu davvero entusiasta di contribuire in una misura talmente spontanea che fummo costretti a interrompere la performance dopo quattro ore, perché l’infermiera (sempre una professionista) incaricata di prelevare la goccia di sangue agli spettatori era davvero stremata. Ricordo come il banco sul quale era poggiato il grande libro era circondato di bambini che avrebbero anche loro voluto contribuire insieme ai cantanti pop, agli artisti circensi, ai fotografi. Sempre in Cile, ma a Santiago, lo presentammo all’interno di una stazione ferroviaria: avevamo collocato il tavolo con il libro, l’infermiera e il calligrafo tra due binari e fu interessante constatare le diverse reazioni dei passeggeri, alcuni dei quali non si fermarono minimamente, continuando a camminare a testa bassa diretti verso i treni. La reazione, sia da parte degli spettatori che da parte delle comunità interessata è sempre differente, dipende anche molto dal luogo, ad esempio a Salonicco eravamo lungo un grande viale e la performance era situata all’interno di un edificio pieno di vetrate così era molto semplice invitare la gente a entrare».
Cambia ovviamente anche la reazione da parte dei gruppi che la compagnia sceglie di coinvolgere, specialmente perché nessuno di loro deve mai sentirsi in nessuna misura costretto a partecipare. «Spesso sono gruppi di giovani o studenti, artisticamente o politicamente coinvolti; è un modo per coloro che studiano arte di creare un ponte tra le questioni accademiche e quelle più prettamente sociali, o artistiche. Non è sempre detto che il laboratorio che precede lo spettacolo si renda necessario, in quei casi entriamo semplicemente in contatto, anche diverso tempo prima, con la comunità che vuole partecipare. I diritti umani si applicano a ogni individuo, il diritto alla casa, di sposarti, di lavorare. Anche qui a Rieti – dove il gruppo ha per comune denominatore l’essere rifugiati – è composto da persone che hanno esperienza artistica (i ragazzi di Officina Teatrale Black Reality che da otto mesi lavorano assieme a un progetto e che difatti contribuiscono in manirra piena al progetto) e da ragazzi accolti nei centri SPRAR, e non sempre tutti riescono a venire, anche perché molti di loro hanno lezioni di italiano o lavorano. Dunque è anche per questo motivo che tendiamo a organizzare l’evento in maniera molto fluida, proprio come dicevamo oggi ai ragazzi della Caritas, ciascuno di loro può sentirsi libero di partecipare con la presenza e l’azione che ritiene più opportuna. Certo organizzare è sempre complicato!»
Viviana Raciti
[Si ringrazia Lorenzo Raciti per la collaborazione alla trascrizione dell’intervista dall’inglese]
Leggi altri contenuti da Ric Festival 2016